Home > La guerra è orrore
Non è certo difficile comprendere e sottolineare il valore di un’iniziativa
di Rifondazione comunista sulle Foibe. E non mi meraviglierò se essa
susciterà discussioni e contrasti. Per noi la ricerca storica è
obbligatoria ed è, in qualche modo, indistinguibile dalla battaglia
politica quotidiana e dalle nostre passioni politiche. E’ inutile, infatti,
nascondere il fatto che in una ricerca storica condotta da militanti e da
un partito entra in discussione tutto quello che ci anima, il nostro
spirito migliore. E dobbiamo lealmente riconoscerlo.
Questa ricerca è dunque collocata dentro un processo politico e di
costruzione di una cultura politica. Un processo che Rifondazione ha
iniziato da tempo e che riguarda il suo modo d’essere, la sua identità e la
sua collocazione sulla scena politica. In poche parole la ricerca storica
che noi vogliamo fare, anche parlando delle Foibe, non è neutrale o
innocente. E quindi, naturalmente e giustamente, essa deborderà
sull’attualità politica, sugli atti che faremo, su chi siamo e chi vogliamo
essere.
Senza attutire i dissensi, dunque, è per me comunque importante che venga
declinato e condiviso il punto di partenza della nostra ricerca. E’ del
tutto evidente che c’è, ed è forte, un contrasto con i nostri avversari,
con la cultura politica che essi esprimono, e con le forze che li
organizzano. Sarò su questo punto molto chiaro. Noi ci fondiamo sulla
negazione di ogni legittimazione del fascismo, sull’analisi critica della
sua storia e anche di ciò che di esso continua, sotto traccia, a corrompere
il tessuto sociale e culturale del paese.
Il nostro antifascismo
Questo è un asse fondamentale della nostra fondazione. Noi siamo e
rimaniamo radicalmente antifascisti. Di quella esperienza e di quella
storia rifiutiamo la connotazione di fondo per come si è manifestata in
tempi solo relativamente lontani e come si manifesta, magari in forme
diverse, più ambigue, oggi. E’ questo - lo ripeto - un elemento necessario
alla nostra fondazione. Riteniamo che l’antifascismo vada vissuto, attivato
e proclamato.
Chiarito e proclamato questo punto dobbiamo fare i conti con noi stessi e
farci una domanda. Come si fa ad estirpare il fascismo e i fascismi dalla
storia dell’umanità? E’ questo il quesito a cui rispondere per fare davvero
i conti con noi stessi.
Il nostro antifascismo non è un omaggio alla storia - anch’esso importante
sia chiaro -, non è il ricordo annuale del 25 aprile. E’ molto di più. E’
la convinzione della attualità dell’antifascismo. E’ la convinzione che
esso sia l’unica religione civile del paese, l’unica capace di costruire
una convivenza civile. Esso è il quadro necessario in cui esercitare il
contrasto ed il conflitto fra chi accetta lo stato di cose esistenti e chi
vuole cambiare la società. L’antifascismo è un elemento fondamentale della
civiltà di un popolo. L’"ora e sempre resistenza" di Calamandrei non è un
urlo o una testimonianza. Essa manifesta pienamente la cultura di un
popolo. Una cultura avversa alla colonizzazione da parte delle maggioranze
e ad una propensione alla esportazione delle civiltà che va sorvegliata e
messa sotto controllo altrimenti rischia di dominare e di dominarti.
E’ questo uno dei motivi per cui, nel percorrere la storia del nostro
Paese, non possiamo che militare dalla parte della critica ad ogni forma di
patriottismo e ad ogni forma di violenza, ammantata di patriottismo, che
conduce alla guerra. Una critica, questa, che possiamo manifestare in
maniera sommessa e composta anche rispetto a quegli elementi estetizzanti
di patriottismo che si vedono dalle nostre parti, quand’anche indotte dallo
stesso Presidente della Repubblica.
Teniamoci lontani, insomma, attraverso una forma di rifiuto, da ogni
elemento di nazionalismo ovunque praticato.
’900 dove abbiamo sbagliato
Se è così allora bisogna vedere anche che cosa non ha funzionato in noi,
perché poi ci ritroviamo con questa guerra e con questo terrorismo. Io
credo, che nel ‘900 noi abbiamo perso. Ha perso la nostra gente, la nostra
storia, la nostra cultura politica. Nel ‘900, il secolo in cui si è
realizzato il più grande tentativo di scalata al cielo e di ascesa delle
masse nella politica, e il tentativo del proletariato di superare la
società capitalistica, cioè la società dello sfruttamento e
dell’alienazione, noi abbiamo perso. La partita nel ‘900 si è conclusa con
una sconfitta. E’ solo colpa dell’avversario?
Guardate che se diciamo così andiamo a casa, chiudiamo la porta e buttiamo
la chiave. Se l’avversario è indefinitamente più forte di noi è inutile
continuare a parlare. Se invece la storia si fa anche con i "se" allora si
può cercare di capire dove abbiamo accumulato degli errori che hanno
contribuito alla sconfitta.
La proposta che facciamo non è una nostra invenzione. Mentre la
globalizzazione pareva vincere, il pensiero unico aveva il dominio totale
del mondo e noi eravamo una minoranza sparuta di resistenti, è nato un
movimento di critica alla globalizzazione che ha attraversato il mondo da
Seattle, a Genova, a Firenze e che è diventato il movimento della pace. La
storia è ricominciata, ed è ricominciata così. Si è trovata una forma di
contestazione di massa, tendenzialmente non violenta al dominio della
globalizzazione capitalista e alla guerra.
Ma allora in quel ‘900 nella nostra storia c’era anche qualcosa che non
funzionava? Siamo così sicuri che era proprio necessario massacrarli quelli
di Kronstad? Siamo così sicuri che per salvare il nuovo stato post
rivoluzionario andavano massacrati? E siamo così sicuri che per difendere
la rivoluzione bisognava costruire degli stati autoritari? Siamo sicuri che
lo stalinismo fosse proprio la risposta necessaria a quella fase? E che il
mantenimento delle tracce dello stalinismo che si sono da lì irradiate non
siano state un elemento, invece, di corrompimento drammatico
dell’alternativa possibile e necessaria del comunismo al capitalismo? E
siamo così convinti che i gulag o non esistevano oppure erano solo un modo
per tenere a freno gli egoismi di popolazioni che non capivano il
comunismo? Oppure invece era una modalità attraverso la quale una idea nata
per liberare si rovesciava nel suo contrario in un regime oppressivo?
Quando parliamo di gulag parliamo di 20 milioni di persone sterminate, di
cui la metà comunisti. Vorrei che qualche brivido ci attraversasse.
Ma al di là dei numeri terribili quello che è successo, quello sterminio
significa che qualche cosa non ha funzionato, o no? Oppure si è trattato di
una perversione orientale, cadendo la quale tutto può tornare al posto
giusto? O non dobbiamo pensare invece che c’è un rapporto tra Kronstadt, il
gulag e qualche cosa che ha a che fare anche con le nostre storie e magari
con le Foibe? Non parlo di un rapporto meccanico, ma di una cultura che
consentiva l’idea di un esercizio del potere e una idea dell’avversario
come nemico da fronteggiare, appunto, in termini prevalentemente militari.
So che alcuni fanno una similitudine fra i campi di sterminio e i gulag,
fra nazismo e comunismo. Non funziona. Il nazismo è un sistema costruito
per l’oppressione, che nasce e vive sull’oppressione e si esaurisce
nell’oppressione di classe, di Stato, di etnia, sistematicamente e
organicamente. Auschwitz è il suo paradigma. Il gulag non è il paradigma
del comunismo, il gulag è la manifestazione estrema di una contraddizione
che il comunismo si è portata nella pancia e che è determinata da una idea
del potere e da una idea della violenza. Su questa idea del potere e su
questa idea della violenza noi dobbiamo fare una revisione coraggiosa.
E’ questo, io credo, il passaggio che noi siamo chiamati a fare, non per
essere meno comunisti, ma semplicemente per cercare di essere comunisti.
Rifiutiamo
la barbarie del nemico
Ora se guardiamo a ciò di cui stiamo discutendo possiamo affermare due
cose. La prima riguarda il condizionamento esterno del nostro avversario,
quanto la natura del nostro avversario incide su di noi. Tema oggi
attualissimo. A me ha fatto molta impressione l’articolo di un dirigente
palestinese che stimo molto, Ali Rashid, che in un momento particolarmente
drammatico in cui Hamas aveva compiuto uno dei molti attentati terroristici
ha scritto un articolo dolente, molto sofferto, in cui diceva: "Questo mio
popolo è proprio spogliato di tutto. Non può muoversi, non può lavorare,
non può costruire. Dipende dallo Stato israeliano, se gli viene aperto il
passaggio, se gli viene aperta l’acqua, se gli viene aperto il lavoro. Ma
adesso c’è una cosa ancora più terribile. La barbarie dell’oppressione dei
coloni, dell’esercito israeliano, ha imbarbarito anche una parte della mia
reazione, della reazione della mia gente. Quella tensione barbarica entra
anche in qualche misura dentro di me".
Questo punto di osservazione non è un atto di nobiltà. E’ una lucida
analisi politica. Senza estirpare da noi questo elemento di penetrazione
dell’avversario, del suo linguaggio, della sua logica, della sua cultura
non vinciamo e rischiamo di assomigliargli troppo. Troppo. E in questo
caso, qualora anche vincessimo saremmo in realtà in larga misura figli di
quella storia che è il contrario di una storia di liberazione e di
emancipazione.
E poi c’è un elemento che riguarda noi, che riguarda la nostra storia,
l’idea cioè che le Foibe ci possono capitare addosso non solo per
imbarbarimento indotto dall’avversario, ma perché nessuna cultura forte è
immune dalla propensione fondamentalista. Tanto più pensiamo di avere
un’idea del mondo, tanto più è radicata l’idea di alternativa, di
diversità, di un altro mondo possibile, tanto più è alto il rischio che si
possa accedere alla scorciatoia fondamentalistica di imporre con ogni mezzo
questo esito.
E’ in questo modo che chi pensa di dover esportare una civiltà fa la guerra.
Vorrei poter dire anche ai compagni più avversi a questa linea di ricerca,
che come vedete non è vero che noi vogliamo disfarci del passato, ma
vogliamo scegliere un lato del nostro passato contro un altro ed esaltarlo
al punto da farlo diventare una pratica sociale, politica e culturale.
Nessuno di noi propone di ricominciare da capo. Noi proponiamo, sulla base
dell’analisi secondo cui il capitalismo oggi porta la guerra come il
temporale porta la pioggia, di sottrarci non solo alla guerra, ma alla
cultura della guerra, alla cultura del potere che è connessa a quella della
guerra. E’ un potere gerarchizzato, onnipotente quello a cui viene delegata
la sorte della partita. Noi pensiamo che la partita la debbano giocare le
moltitudini, le masse e le classi, non lo stato maggiore. Questo è il punto
chiave. Se c’è uno stato maggiore c’è un regime possibile di guerra.
Allora, quelle che appaiono culture deboli e soggetti deboli, noi dovremo
saperlo per nostra storia, sono i portatori del futuro. Perché la classe
operaia è il soggetto del cambiamento se non perché esprime la realtà dello
sfruttamento e dell’alienazione? E non riposa su di essa la possibilità,
attraverso la rivolta e la rivoluzione, della liberazione? Ma se è così non
c’è già, nell’antropologia marxiana, il rovesciamento del forte con il
debole, perciò noi siamo forti se siamo deboli, noi siamo egemonici se
siamo in grado di valorizzare le diversità? Ma perché la periferia diventi
il centro bisogna che la radicalità sia iscritta in una pratica di non
violenza. Il massimo di radicalità oggi si può esprimere solo con la non
violenza, altrimenti retrocede immediatamente a braccio armato e si
inserisce nella dialettica guerra-terrorismo. Diventa la fine della
politica. Se oggi facessimo quella scelta, se fosse in qualche modo
compresa nelle nostre possibilità, sarebbe la devastazione nostra, del
campo e della politica.
Ieri era una tragedia e per questo possiamo ragionarci al fine di poterla
estirpare dalla nostra storia valorizzando invece gli altri elementi che
sono descritti nella storia partigiana, della Resistenza, della costruzione
delle comunità e poi, via via, della grande ascesa delle lotte di massa,
della nascita del femminismo.
Se oggi dovessimo accettare la violenza essa ammazzerebbe soprattutto noi.
Per questo, io credo, noi dobbiamo liberarcene facendo i conti interamente
con la nostra storia.