Home > La mafia al tempo di Berlusconi

La mafia al tempo di Berlusconi

Publie le mercoledì 15 ottobre 2003 par Open-Publishing

LIBERAZIONE 15-10

La mafia al tempo di Berlusconi

Le scelte criminogene di una classe politica vistosamente compromessa

di Nichi Vendola

L’Italia berlusconiana, nella sua fisiologia istituzionale e nell’apparato digerente del suo ceto
politico diffuso, è un Paese gravemente ammalato di affarismo e di mafiosità. Non occorre vestire
i panni di Savonarola per sentire l’offesa diuturna e sistematica che viene inferta a qualsivoglia
nozione di legalità. O per vedere la girandola di mazzette, di appalti truccati e pilotati, di
sodalizi tenebrosi tra imprenditori e politici, di patti scellerati tra poteri legali e universi
criminali. O per dire il dolore corale che abita città insanguinate e oppresse dal comando pervasivo
dei clan. La destra governante è colpevole di una produzione legislativa che, mentre ha chiuso
nella più aspra morsa repressiva ogni specie di marginalità e di disagio, ha operato una
depenalizzazione simbolica e talvolta effettuale dei reati dei "colletti bianchi" e della criminalità
dell’establishment. Il gabinetto Berlusconi ha la responsabilità assai pesante di aver fatto strame di un
diritto spesso capovolto nel suo rovescio, di una legge ridotta a scudo protettivo dei ceti
possidenti, di una giurisdizione ora blandita e più spesso intimidita e sempre considerata una minaccia
per quel sovrano politico-imprenditoriale che si considera "ex legibus solutus". La politica
economica dell’attuale governo ha mirato alla precarizzazione selvaggia del mercato del lavoro, con la
produzione sociale di una nuova figura di salariato precario e solo, con la moltiplicazione di
quegli "invisibili" che gremiscono la periferia del non lavoro, con la caduta verticale della cultura
del lavoro come elemento di coesione sociale e di incivilimento generale: e quando i lavoratori
sono più fragili e hanno più paura, la mafia è più forte e non ha paura.

La destra, illuminata dalla filosofia di Lunardi sulla necessaria convivenza con la mafia, ha
rimesso in moto la macchina della cementificazione selvaggia, delle grandi opere da costruire in
deroga alle leggi, dell’assalto al territorio, della mercificazione e privatizzazione di ogni bene e
servizio. Condoni, sanatorie, evasione fiscale legalizzata, rientro dei capitali dall’estero: sono i
grani di un rosario che viene ben stretto nelle mani dei boss. L’antimafia repressiva spesso non è
altro che una tela di Penelope: dove il duro impegno delle autorità preposte al contrasto viene
inficiato dalle scelte criminogene di una classe politica così vistosamente compromessa. Di giorno
si cattura un latitante, di notte si regala un appalto ad un clan: così tutto diventa una lotta di
"guardie e ladri", con il carcere che serve semplicemente a determinare una sorta di turn over
degli eserciti e delle leadership criminali.

Non c’è dubbio: qualunque partito può essere toccato, scalfito, sporcato dalla penetrazione di
interessi affaristici e mafiosi. Ma il punto non è questo: il punto è se quella penetrazione diventa
generalizzata, se viene promossa e premiata, se diventa una bussola del proprio insediamento
elettorale e la cornice della propria attività amministrativa. E poi in quest’Italia malata c’è un
Presidente del Consiglio, convocato come teste in un processo di mafia che coinvolge un suo intimo
amico, che si avvale della facoltà di non rispondere. Possibile che a fare scandalo, in questa buia
notte del diritto e della legalità, siano le aspre e ineleganti parole di Luciano Violante?