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Le pesanti eredità del nostro secolo

Publie le giovedì 4 dicembre 2003 par Open-Publishing

La più drammatica situazione della storia mondiale: i fattori che l’hanno determinata

Le pesanti eredità del nostro secolo

Chi scrive è nato quando nella vita quotidiana pesava ancora il ricordo della tragedia della
prima guerra mondiale e ha iniziato il suo impegno culturale e politico nell’anno di Stalingrado e di
El Alamein. Da tempo aveva espresso la convinzione che il mondo della globalizzazione e
dell’egemonia degli Stati Uniti fosse estremamente instabile e lacerato da intrinseche contraddizioni.
Tuttavia, difficilmente avrebbe potuto immaginare che si giungesse alla situazione attuale, una delle
più drammatiche, se non in assoluto la più drammatica della storia mondiale. Ci augureremmo di
sbagliare in questa schematica definizione. Ma il problema è, prima di tutto, di cercar di comprendere
quali siano state le molteplici vicende che nel corso di un secolo hanno portato a un simile
sbocco.

Partiamo dalle scelte fatte e imposte dalle grandi potenze vincitrici della prima guerra mondiale
con il trattato di Versailles e altri trattati complementari. Non c’è dubbio che, alcune di queste
scelte hanno favorito l’emergere di reazioni nazionaliste, culminate nell’ascesa del nazismo e nel
suo avvento al potere quindici anni più tardi. Ma, per ricollegarci più direttamente a vicende
attuali, la configurazione statale del Medio Oriente, è stata in larga misura determinata allora,
dando vita a formazioni artificiali, la cui logica prevalente era ispirata dagli interessi dei
vincitori. Questo vale per l’Iraq e per la persistente tragedia del popolo curdo, che, a dispetto di
solenni dichiarazioni di principio, pur essendo etnicamente omogeneo, era inserito in quattro diversi
stati (addirittura cinque se si considera l’Unione Sovietica).

La fine della seconda guerra mondiale - pur celebrata come storica vittoria delle "potenze
democratiche" - era accompagnata dal sinistro boato delle bombe atomiche lanciate contro un Giappone già
nell’impossibilità di continuare a combattere. La frattura tra "potenze democratiche" era un fatto
compiuto solo due anni dopo. Nello stesso 1947 l’accesso dell’India all’indipendenza era imposto
dalla Gran Bretagna con la suddivisione tra India e Pakistan che provocava immediatamente
spaventose stragi e i cui effetti perversi perduravano per decenni senza essere superati neppure ora.
L’artificiale Pakistan doveva dividersi, dopo lotte sanguinose, in Pakistan e Bangladesh. Che queste
vicende siano tra le cause principali della miseria tuttora prevalente nel subcontinente sarebbe
difficile negare.

D’altra parte, gli ultimi decenni del secolo scorso hanno segnato il sostanziale fallimento della
operazione neocolonialista. Questo fallimento è stato particolarmente distruttivo in Africa e
nella stessa Nigeria, ma l’esempio indonesiano indica che ha avuto più ampie dimensioni. Che sia
quindi da annoverare tra i fattori che hanno determinato la situazione attuale anche questo sarebbe
difficile negare.

Le dinamiche economiche

Sul piano della dinamica economica non va perso di vista che la fine del lungo boom postbellico
risale ormai a oltre un quarto di secolo. Ci sono state, certo, vicende alterne in questo o in quel
paese. Ma in nessun caso, tranne che per qualche anno negli Stati Uniti, si è ritornati a ritmi di
crescita paragonabili a quelli degli anni 50 e '60. L'ipotesi che una nuova fase di ascesa duratura si concretizzasse grazie alla New Economy è stata spazzata via dallo scoppio della bolla finanziaria. Così le stesse maggiori potenze economiche segnavano il passo o addirittura retrocedevano (Giappone). Che tutto questo avesse ben più devastanti conseguenze per i paesi sottosviluppati era inevitabile. Giungiamo alla constatazione centrale: lo stato di cose esistenti - cioè l'abissale differenziazione tra le condizioni di una minoranza della popolazione mondiale e quelle di una crescente maggioranza - non poteva protrarsi indefinitamente senza esplosioni e lacerazioni sempre più profonde. Ben inteso, per comprendere fenomeni come il fondamentalismo islamico e il diffondersi del terrorismo - da non identificare automaticamente- è necessario ricorrere ad analisi molteplici e a tutta una serie di mediazioni. Ma questi non può far dimenticare i fattori che hanno agito e agiscono in profondità. Per noi il rigetto di concezioni fondamentalistiche - non solo islamiche- e dei metodi terroristici è senza ambiguità, non partendo da una qualsiasi difesa dei "valori occidentali". E' stato un conservatore come Sergio Romano a fornire, a proposito del terrorismo, una spiegazione che ha una sua plausibilità. Di fronte alla soverchiante potenza militare devastatrice degli Stati Uniti appare impensabile una risposta sullo stesso terreno. Per questo si "sferrano colpi sotto la cintura" per condurre la propria lotta. Il fallimento del socialismo reale Al di là di tutto questo per noi l'interrogativo essenziale deve essere: perché la rivolta contro la dominazione capitalistica nell'era della estrema internazionalizzazione e concentrazione del capitale non vede, in linea generale, emergere in Asia, in Africa e nel Medio Oriente (il discorso è diverso per l'America latina su cui sarà necessario ritornare) forze popolari ispirate da movimenti operai e contadini di matrice socialista e non movimenti integralisti o nella migliore delle ipotesi torbidamente populisti. Sembra quasi superfluo richiamare ancora una volta le conseguenze del fallimento del cosiddetto socialismo reale, che ha comportato una evoluzione negativa dei rapporti di forza su scala mondiale. Necessario, invece, cogliere fattori più specifici, cioè il fallimento di formazioni tradizionali o più specifiche nel corso di oltre quarant'anni. Il Medio Oriente fornisce un insegnamento particolarmente pertinente. La socialdemocrazia non è mai riuscita, per ragioni ovvie, a mettere radici in quest'area del mondo (tranne che nello stato di Israele). Sono sorti invece movimenti nazionalisti arabi e, in alcuni casi, partiti comunisti di consistenza non trascurabile. Il movimento Baathista e più in generale movimenti nazionalisti arabi hanno svolto a un certo momento ruoli di primo piano e il punto culminante è stata la rivolta del 1958 nell'Iraq contro l'autocrazia proimperialista di Nury Said. Ma questi movimenti hanno conosciuto rapidi processi involutivi: anche in questo caso l'esempio più eloquente è quello dell'Iraq. Un caso limite è quello del partito comunista iracheno, che ha avuto a più riprese una notevole influenza ma è finito nel vicolo cieco di oscillazioni e correzioni di rotta che lo hanno portato in certi periodi a sostenere la dittatura di Saddam Hussein, mentre continuava a subire le più feroci repressioni. L'espressione pressoché paradossale del suo drammatico fallimento è stata la decisione di far parte del governo fantoccio messo in piedi dalla coalizione imperialista. Tutti questi fattori che abbiamo sommariamente ricordato hanno contribuito, se pur in misura diversa, alla situazione attuale: per difendere la propria dominazione sociopolitica mondiale Stati Uniti e alleati non esitano a un ricorso permanente a guerre distruttrici, mentre appaiono come portatrici di unopposizione sovrannazionale forze integraliste dalla composizione sociale trasversale
che ricorrono al terrorismo come mezzo principale di lotta.
La conclusione inevitabile, per dura che sia, è che la battaglia per la costruzione o la
fondazione di un’alternativa sociale politica e culturale non potrà essere breve.

Il ruolo del movimento

Non esistono scorciatoie né operazioni tattiche, per legittime che siano, che permettano di uscire
a breve termine dalle enormi difficoltà che conosciamo.
Non siamo colpiti da amnesia: non dimentichiamo il movimento contro la globalizzazione
neoliberista e per la pace, che ha dato una conferma della sua vitalità nelle recenti giornate di Parigi. La
conclusione del nostro ultimo congresso sull’esigenza di puntare su questo movimento o su altri
della stessa matrice che potranno sorgere in futuro, per la ricostruzione del movimento operaio e
comunista, resta valida. Ma sono necessarie anche a questo proposito valutazioni realistiche. A noi,
per esempio, non sembra opportuno continuare a riferirci alla citazione del New York Times -
peraltro preceduta di un anno dal Financial Times - sulla seconda potenza mondiale che il movimento
rappresenterebbe.

Che avversari siano stati costretti a riconoscere la vitalità del movimento e il
suo carattere alternativo va benissimo. Ma non perdiamo il senso delle proporzioni. Nonostante tutte
le validissime battaglie condotte sin dall’inizio, il movimento non ha costruito ancora i rapporti
di forza necessari per bloccare il bellicismo criminale della "prima potenza mondiale" e dei suoi
alleati e neppure per contrastare la sistematica controffensiva padronale e per poter approfittare
in senso costruttivo della sempre più evidente crisi del neoliberismo e delle stesse difficoltà
che conosce la costruzione di un’Europa antisociale e antidemocratica.
Non si tratta di cedere al pessimismo, ma di non dimenticare che una lucida presa di coscienza
della realtà è il presupposto necessario per la costruzione non di una ipotetica alternanza, dai
contorni sempre più confusi, ma una radicale alternativa.

Livio Maitan

Tratto da Liberazione del 2 dicembre 2003