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Ma la non-violenza non contraddice il nostro comunismo

Publie le domenica 18 gennaio 2004 par Open-Publishing

Caro Curzi, mi pare che nel dibattito che si sta sviluppando sulla nonviolenza vi siano molti fraintendimenti. La nonviolenza (scritta tutta-di-seguito) non è il contrario della violenza. Allo stesso modo per cui affermiamo che la pace (quella positiva, fondata sulla giustizia) non è semplicemente l’assenza di guerra guerreggiata. La nonviolenza non è (solo) una prassi, una tattica, una modalità che possono scegliere i movimenti politici di trasformazione della società a seconda delle opportunità con cui la storia si presenta a noi.

La nonviolenza, almeno dentro alcune teorie generali (gandhiane, ma non solo: pensiamo ai neri d’America o alla teologia della liberazione), allude ad un’idea politica complessiva del potere che chiama in causa strutture, istituzioni, rapporti sociali, sistemi di valori, culture, coscienza di sé, comportamenti. Ed è un’idea di società alla radice inconciliabile con l’attuale, affatto diversa da quella capitalista perché ne mette in discussione la costruzione ideologico-giuridica principale: la separazione tra individuo e società, tra etica e politica, tra etica della coscienza ed etica della responsabilità (per citare Bobbio), tra libertà e potere (Capitini). Quando si dice che "i mezzi stanno ai fini come il seme all’albero", si demolisce il pensiero occidentale che regge le istituzioni capitalistiche (dall’impresa allo stato) da qualche secolo. Almeno che non si pensi che la guerra, la divisione della società in classi, la depredazione delle risorse naturali… siano accidenti indesiderati, effetti collaterali emendabili, così che sia possibile "mettere al servizio" di altri scopi le modalità di produzione, la scienza, la tecnica, lo sviluppo della potenza sociale delle forze produttive.

La violenza dell’uomo sull’uomo, sulla donna, sulla natura rimane l’elemento inevitabilmente costitutivo e ordinatore dei rapporti di produzione e di potere, quindi sociali, capitalistici. In questo senso la nonviolenza va certamente oltre il pacifismo. Allude ad una società di liberi ed eguali, una democrazia sostanziale di comunità capaci di auto-organizzarsi al proprio interno e di rapportarsi secondo schemi di cooperazione e di reciprocità all’esterno. L’azione nonviolenta (la disubbidienza, la non collaborazione, il boicottaggio, l’obiezione, l’interposizione, la mutualità e le mille e mille forme individuali e collettive con cui ci si può opporre all’avversario, sciogliere i fili del comando, sottrarsi alle sue leggi, destrutturate poteri e colpire i suoi interessi economici…) quando è davvero efficace, costruisce rapporti umani e solidarietà sociale la cui bontà e convenienza sono immediatamente dimostrabili. Istanza etica e azione politica si identificano. Rottura e innovazione dei rapporti sociali procedono di pari passo. Organizzazione (mandato) e rappresentanza (delega) non si separano.

Non mi pare che tutto ciò possa contraddire in alcun modo l’idea che abbiamo noi di comunismo. Al contrario, penso, possa consentire di rimetterla in marcia, qui e ora, sulle gambe e con il fiato di molte più persone, di tanti giovani e, soprattutto, di donne. Mi sono chiesto, allora, cos’è che (da sempre) fa scattare tanta diffidenza, se non persino avversione all’idea di lotta nonviolenta in molti teorici e attivisti della sinistra rivoluzionaria? Penso sia la convinzione che la nonviolenza sia un inganno. Per due motivi: uno dettato dal pessimismo verso l’ipotesi che sia possibile dispiegare a livello di massa una tale consapevolezza individuale capace di reggere conflitti nonviolenti di grande intensità (nonostante e più di Genova, Cancun, il 15 febbraio…ma non dimentichiamoci ciò che c’è stato anche prima, anche da noi; Comiso e il nucleare, ad esempio). Il secondo, dettato da una incrollabile certezza sul fatto che prima o poi - comunque - il sistema è destinato ad implodere e potrebbe essere necessario il ricorso alla lotta armata, nelle varie forme che abbiamo visto guerriglie di resistenza e di liberazione conosciuto e che la storia ha reso necessarie (guerre di popolo anticolonialiste, guerriglie di resistenza e di liberazione, insurrezioni). La scelta della nonviolenza ci precluderebbe una possibile via di salvezza/uscita.

Insomma torna la questione della inefficacia del pacifismo nonviolento. Problema che giudico di difficile, se non di impossibile soluzione a tavolino. Si possono solo fare delle valutazioni molto soggettive sul piano storico e tentare di trarre qualche insegnamento. (Se mi fosse consentito di togliermi dall’impiccio con una battuta, direi che sono finiti crocifissi sia Cristo che Spartaco, o che sia l’India che la Russia sono state costrette a strisciare nella periferia dell’impero). Ciò che ritengo sicuramente obbligatorio per una forza politica è compiere delle valutazioni pragmatiche, ora e per il futuro, facendosi guidare dall’unico criterio di valutazione possibile in politica: scegliere ciò che permette di attivare il più gran numero di energie sociali lungo un percorso di trasformazione, scegliendo le modalità più coerenti e convincenti, più innovative e più partecipate, capaci di mostrare già ora qual è la società che vogliamo domani (almeno sotto il profilo delle regole politiche che devono intercorrere tra di noi