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Metafisica della non violenza o ricostruzione storica?

Publie le martedì 20 gennaio 2004 par Open-Publishing

Perché si parla sempre delle foibe

Non è mai stato troppo difficile polemizzare con la periodica strumentalizzazione fascista e degli
anticomunisti di varia estrazione, o contro il solito Violante che a costoro faceva spudorate
concessioni, e anche contro il "giustificazionismo" quasi negazionista di parte dei nostalgici di ogni
forma di stalinismo. Lo abbiamo fatto periodicamente, quasi ogni anno. Non immaginavamo di doverlo
fare anche stimolati da un intervento di Bertinotti, che le foibe ha preso a pretesto per
sviluppare una specie di "metafisica della non violenza".

Prima di tutto ci permettiamo qualche riserva sul metodo: è il segretario a "dare la linea", su
questioni storiche, su cui ci sono molti libri, analisi di storici triestini e della regione,
comunisti o democratici. Forse questi compagni sono stati invitati al convegno di Venezia (a proposito,
perché non a Trieste?), ma su Liberazione ne parla il segretario, non gli specialisti. E per
questo, in un giornale che ha sempre problemi di spazio, si dedicano quattro pagine (viene in mente il
Granma, che tuttavia quando Fidel Castro fa un discorso almeno aggiunge 4 pagine alle 8
ordinarie).

Ma c’è un problema di sostanza: Bertinotti si è sicuramente documentato, ma ha finito per fare un
amalgama tra fasi e fenomeni diversi, che raccoglie sotto il generico termine "violenza", o
attribuisce a visioni diverse. Metterli insieme non serve a molto, come non serve parlare di un unico
"terrorismo" invece che di almeno tre fenomeni diversi nel tempo e nello spazio e nelle logiche che
li muovono.

Ma veniamo alle foibe: a mio parere bisogna distinguere due fasi:

1) nel 1943, la violenza fu spontanea, come vendetta dei contadini slavi per le tante violenze
fasciste (che usavano nel 1921-1922 proprio le foibe per gettare le vittime). Gli slavi avevano
rappresentato una percentuale molto alta tra i condannati a morte dai tribunali speciali, ed erano
stati trattati ferocemente durante il ventennio, ma ancor più dopo la spartizione della Jugoslavia tra
Italia e Germania nazista. Tutte le testimonianze dirette, oltre a ricondurre quegli episodi a una
rivolta contadina, con tutti gli strascichi di "giustizie fatte da sé" ai danni di quelli che per
vent’anni erano stati i padroni, e cioè non solo i fascisti ma gli italiani in genere, parlano di
poche centinaia di vittime.

2) nel 1945, invece, c’è stata una politica feroce di eliminazione di avversari. Bertinotti, in
altra parte del suo lungo discorso, parla dello stalinismo, ma è proprio qui che se ne deve parlare
per capire cosa facevano le ben organizzate truppe di Tito: ci sembra che vada ricordato un
aspetto di solito ignorato: nel corso della guerra, "la sinistra parte internazionalista e arriva
nazionale". La formulazione, abbastanza approssimativa, ma sostanzialmente corretta (la fine
dell’internazionalismo è di molto precedente alla guerra), è di Gianni Perona, in un’intervista a
"Liberazione" del 27 agosto 1996.
La questione fondamentale è che i comunisti jugoslavi avevano assimilato a fondo il recupero del
nazionalismo che stava dietro al "socialismo in un solo paese" e a tutta l’impostazione dei fronti
popolari. Uno degli scontri tra comunisti jugoslavi e una parte di quelli italiani di Trieste e
dell’Istria, fu legato all’uso della bandiera rossa, vietata dagli jugoslavi al pari di quella
italiana durante l’occupazione di Trieste. La guerra iniziata come antifascista divenne antitedesca e
antitaliana, analogamente a quanto avveniva su scala maggiore con la "grande guerra patriottica",
come in URSS fu chiamata e vissuta la resistenza.

Al tempo stesso, l’analoga impostazione "nazionale" data al CLN italiano, con una piena
corresponsabilità del PCI, creava tensioni nelle zone di contatto, che in qualche caso si tradussero anche
in scontri armati o peggio in esecuzioni a freddo. La contraddizione finì per lacerare (con
strascichi che rimasero a lungo) lo stesso partito comunista italiano, diviso in quella zona tra un PC
giuliano, che pubblicava "Il lavoratore", apertamente a favore dell’annessione alla Jugoslavia, e un
Fronte Comunista Italiano, divenuto successivamente PCI della Venezia Giulia ad opera di
"dissidenti" contrari alla soluzione annessionistica, non in chiave nazionalistica italiana ma
contrapponendo piuttosto la bandiera rossa a quella jugoslava. Le tensioni di quegli anni facilitarono poi
l’impegno duramente "antititoista" (ma di fatto antijugoslavo) del PC del Territorio Libero di
Trieste guidato da Vittorio Vidali.

Nella vicenda di quel periodo si intrecciarono dunque l’espansionismo jugoslavo e le comprensibili
vendette che accompagnano ogni crisi politica e sociale compresa, (e su cui periodicamente
speculano i giornali borghesi, rispolverando il "triangolo della morte" o la "volante rossa").. Alcuni
commentatori hanno sottolineato il carattere prevalentemente "non etnico" delle violenze, ricordando
che ad esempio in Slovenia i comunisti fucilarono circa 12.000 compatrioti collaborazionisti (o
presunti tali, cioè anticomunisti o anche solo non comunisti), mentre in tutta l’area che va da Zara
a Gorizia le vittime italiane secondo gli alleati furono 4.000 o al massimo 6.000.
Ridimensionare rispetto alle cifre esagerate fornite dalla destra non vuol dire giustificare. Ma
distinguere tra quelli che sono atti inevitabili in un conflitto ancora aperto e la repressione
successiva a freddo è importantissimo. Guevara ha spiegato onestamente che certe fucilazioni si sono
"rese necessarie" durante la lotta sulla Sierra, quando i guerriglieri non erano abbastanza forti
per potersi permettere altre forme di giustizia meno sommaria, e ha detto che gli stessi
trasgressori, in un momento diverso, avrebbero potuto essere rieducati e conquistati alla rivoluzione.

Per
giunta l’atto di fucilare, che in un momento dato della lotta può essere una dolorosa necessità,
diventa in assoluto inaccettabile quando è rivolto a vinti ormai inermi, e per motivi "ideologici".
Non è possibile dunque alcuna giustificazione a quel che avvenne a Trieste nel 1945, perché
veniva fatto quando non c’era più incertezza sull’esito della guerra antifascista: era semplicemente la
logica stalinista di eliminare fisicamente e preventivamente i possibili oppositori
all’annessione.
Per giudicare non ci serve di contare i morti dell’una e dell’altra parte (anche se è necessario
farlo per smentire certe speculazioni), ma di vedere come l’ansia di cambiamento di quegli anni sia
stata distorta, provocando un comprensibile rigetto in chi invece degli ideali emancipatori e
internazionalisti che avevano caratterizzato fin dal suo sorgere il movimento operaio si trovava di
fronte una ripresa di antichi nazionalismi.

Tra l’altro non solo i fascisti, ma anche la maggior parte di quelli che scrivono sulla questione,
ignorano tutto della crisi che il complesso rapporto del PCI con la Jugoslavia innescò negli anni
successivi, provocando lacerazioni, espulsioni, partecipazione di ottimi militanti perfino ad
attività terroristiche contro il PCJ e Tito in particolare, in nome della fedeltà incondizionata a
Mosca. Nessuno ricorda l’episodio triste e vergognoso dell’appoggio offerto dal PCI alla
mobilitazione nazionalista del governo di centrodestra di Pella contro la Jugoslavia. Quindi parliamo e
giudichiamo pure le foibe senza reticenze, ma non le utilizziamo per fondare su di esse la metafisica
della non violenza.

Una necessaria precisazione su Kronstadt

Nel corso del suo lungo intervento Bertinotti parla abbastanza a lungo di Kronstadt, usando due
volte il termine "massacrare",e mettendo sullo stesso piano due vicende e due momenti tra i quali fa
ancora una volta un amalgama che non aiuta a capire. Distinguiamo dunque le due fasi:
Fase 1: quando al X Congresso del partito comunista russo, riunito tra l’8 e il 16 marzo 1921 per
prendere decisioni importantissime come la NEP (Nuova Politica Economica) arrivò la notizia della
rivolta dei marinai di Kronstadt, tutti i dirigenti furono presi dal panico.

Contrariamente alla leggenda anarchica (ma ripresa a man bassa da "nuova sinistra" e nostalgici
dello stalinismo) quei marinai non erano gli stessi del 1917, che erano andati a formare il nerbo
dell’armata rossa. Erano in maggioranza giovani reclute orgogliose del prestigio del nome delle loro
navi, ma che non avevano combattuto la guerra civile, che si combatté lontano da quel forte che
controllava l’accesso a Pietrogrado, e non avevano una formazione politica o tradizioni
rivoluzionarie.
La molla che fece scattare l’attacco alla fortezza fu la convinzione che la rivolta fosse diretta
da ufficiali legati ai bianchi, che dai porti scandinavi dove stavano navi russe sottratte al
governo sovietico avevano vantato la loro influenza su quella guarnigione e preannunciato sui loro
giornali una prossima insurrezione. Io ho scritto già molti anni fa che fu il panico a far credere a
quello che scrivevano i fuorusciti bianchi sui loro giornali: lo stesso Lenin aveva ironizzato
pochi mesi prima su di loro, che avevano annunciato decine di volte la sua morte.

Fu dunque un errore
credere alle millanterie dei controrivoluzionari appena sconfitti nella durissima guerra civile,
che era costata milioni di morti al paese, ma se fosse stato vero?
Se veramente i controrivoluzionari avessero costituito una testa di ponte alle porte di
Pietrogrado, bisognava lasciarli fare? Così il congresso sospese i suoi lavori per consentire ai delegati di
partecipare all’attacco al forte, che era urgente perché il prossimo disgelo avrebbe consentito a
navi nemiche di raggiungere Kronstadt.
Non fu comunque un massacro di una forza preponderante contro inermi assediati, ma una durissima
battaglia che costò più cara agli assalitori che a chi li colpiva con i cannoni delle navi e di un
sistema poderoso di fortezze.

Nel corso di essa morirono molti delegati al congresso.
Un errore di valutazione dunque impose i tempi. Se si fosse atteso qualche settimana, la notizia
dell’introduzione della NEP decisa dal congresso avrebbe potuto probabilmente disinnescare la
protesta che, anche se condita con la richiesta difficilmente accettabile di "soviet senza comunisti",
aveva come contenuto fondamentale la richiesta di una liberalizzazione dei mercati contadini
analoga a quella che stava per essere decisa dal congresso indipendentemente dalle loro richieste (anzi
Trotskij aveva chiesto analoghe misure fin dall’estate 1920).

Fase 2: Nei mesi successivi, senza che fosse minimamente necessario dato che il pericolo era
cessato e il legame con i bianchi era risultato immaginario, e senza nessuna decisione formale del
gruppo dirigente, nelle carceri di Pietrogrado ci furono ondate successive di fucilazioni di marinai
detenuti. Questi sì che si possono definire "massacri", ma sono non la conseguenza di una scelta
politica, bensì la testimonianza della sempre maggiore autonomizzazione di quegli organi repressivi
che avrebbero successivamente spazzato via la grande maggioranza dei dirigenti bolscevichi. Che la
repressione successiva alla riconquista della fortezza sia stata sproporzionata, tra l’altro,
l’avevo scritto a chiare lettere già nella prima edizione del 1986 del mio libro Intellettuali e
potere in URSS (Milella, Lecce, 1986, pp. 162-163).

Perché si tira in ballo così spesso Kronstadt, senza conoscerne bene la vicenda? Non vorrei che
fosse un riflesso della intramontabile leggenda che attribuisce la repressione a Trotskij, una
leggenda che viene sempre riproposta perché tende ad avallare la tesi che se Stalin fosse stato rimosso
come proponeva il testamento di Lenin ,Trotskij avrebbe fatto lo stesso o peggio. Cioè serve a
evitare di confrontarsi con le proposte di quei comunisti che fin dagli anni Venti avevano capito
dove andava l’URSS.
Questa calunnia ha continuato a circolare, condita da dettagli completamente inventati che
all’organizzatore dell’Armata Rossa attribuiscono particolari efferatezze durante la repressione della
rivolta di Kronstadt, continuando a ignorare il piccolo particolare che Trotskij nel marzo 1921 non
fu nemmeno presente a Kronstadt: Negli anni Trenta, in due lettere irritate contro il connubio tra
stalinisti e anarchici, afferma di aver condiviso allora la scelta del congresso di riconquistare
la fortezza, ma spiega che non vi si recò personalmente, dato che un anno prima, durante il
dibattito sui sindacati, era andato nella fortezza insieme a Zinov’ev per esporre la sua posizione sui
sindacati, ed era stato fortemente contestato. Per questo il coordinamento delle operazioni fu
affidato proprio a Zinov’ev, che aveva da tempo una forte influenza su quei marinai e in genere a
Pietrogrado.

Ma l’accusa, fatta circolare presto anche da Stalin, viene ripresa testardamente dagli anarchici e
magari anche da chi ha giustificato ben altre repressioni, dal Grande Terrore degli anni Trenta in
URSS a piazza Tien Anmen. Me la sono sentita riproporre in centinaia di dibattiti, a volte dalle
stesse persone a cui avevo pazientemente spiegato come erano andate le cose. Calunnia, calunnia,
qualcosa resterà...

Altre questioni semantiche

Nel lungo intervento di Bertinotti diverse altre formulazioni possono sollevare preoccupazioni per
la vaghezza o la possibilità di confusione con luoghi comuni abbondantemente circolanti nel
centrosinistra o nei messaggi del presidente Ciampi (ad esempio l’antifascismo come "religione civile",
richiama la retorica con cui l’antifascismo è stato celebrato per decenni, attenuandone o
nascondendone le caratteristiche di classe).
Un altro concetto, la "rivoluzione capitalistica restauratrice" ci era parsa già nella fase
congressuale inopportuno, in primo luogo perché contribuiva alla confusione seminata dalle classi
dominanti sul termine "rivoluzione", sempre associato a qualche stangata ai diritti acquisiti, come il
classico "rivoluzione delle pensioni" (ma anche il termine "riforme" viene usato spesso a
sproposito). Inoltre la fase attuale ci sembrava, più che una "rivoluzione" sia pur restauratrice, un
recupero delle forme "classiche" del capitalismo e dell’imperialismo.

Ma è la definizione della "coppia guerra-terrorismo" che può suscitare maggiori equivoci. Già la
formula "spirale guerra-terrorismo", usata nella pagina di pubblicità agli abbonamenti, aveva il
difetto di mettere sullo stesso piano i due fenomeni, rendendo poco chiaro quale fosse la causa e
quale l’effetto. Ma ora si arriva a sostenere addirittura che "sono due soggetti politici" autonomi,
e che "non è vero che il secondo è derivato dalla prima".
Non è vero: negli ultimi due secoli ci sono state infinite guerre, terribili (comprese quelle di
cui non si parla sui manuali, le guerre di sterminio dei popoli coloniali, che hanno provocato più
morti delle due guerre mondiali), e solo in alcuni momenti c’è stata una risposta armata che ha
assunto le caratteristiche del terrorismo.

Non si possono usare concetti come questi come se non vivessimo in un paese in cui tutti sono
sottoposti a un bombardamento mediatico basato su molte falsità:

1.Le guerre sarebbero una doverosa risposta al terrorismo. Non è vero neppure per quella
dell’Afghanistan, già preparata prima dell’11 settembre, è falsissimo per le due dell’Iraq, per le guerre
nella ex Jugoslavia, in Somalia, in tanti altri paesi.

2.Esisterebbe un "terrorismo internazionale" operante in tutto il mondo e da combattere con ogni
mezzo. Sotto questo nome i grandi mass media e i signori del mondo, collocano non solo le azioni
terroristiche della fantomatica rete di Al Qaeda, ma ogni forma di legittima resistenza
all’oppressione e all’occupazione militare, dalla Palestina alla Cecenia, al Xinjiang Uygur, all’Iraq e
all’Afghanistan, oppure i conflitti etnici tra integralisti indù e integralisti islamici del Pakistan.
Invece ciascuno di questi fenomeni ha una sua storia e sue ragioni, e non c’entra niente con Al
Qaeda. Sempre che questa esista ancora, e sia stata responsabile davvero dell’attacco alle due
torri, senza dubbio terroristico, ma avvolto nel più fitto mistero per moltissimi aspetti su cui hanno
scritto non pochi scrittori statunitensi. Io non so dire ovviamente chi davvero ha organizzato o
lasciato compiere quell’attentato spettacolare. Mi limito a costatare che un’organizzazione
presentata come quasi onnipotente ha aspettato due mesi per lanciare una vaga rivendicazione, e non è
stata capace poi in più di due anni di sferrare qualche altro colpo.

3.Per aumentare la psicosi poi si presentano come parte della stessa offensiva terroristica
mondiale anche i penosi e insignificanti cloni delle brigate rosse (giustamente soprannominate da
Robecchi le "brigate Co.co.co"), o i sedicenti "anarco-insurrezionalisti che nessuno conosce ma inviano
in giro per l’Europa provvidenziali letterine di propaganda esplosiva e perfino i misteriosi
siringatori delle bottiglie d’acqua (fenomeni questi ultimi che dovrebbero interessare soprattutto gli
psichiatri).

Bertinotti, effettivamente, usa una formula cauta che in sé potrebbe essere accettabile (il
terrorismo "organizza il conflitto e la distruzione su obiettivi sociali e civili del paese"), ma che
diventa ambigua in un’Italia in cui ci hanno fatto una testa così sui "martiri di Nasiriya", e
quell’attacco è stato definito terroristico.
Bisogna avere il coraggio di dire se era moralmente e politicamente lecito colpire la caserma di
uno degli eserciti occupanti, o no. Io sono d’accordo che non bisogna colpire i civili, ma se
quattro guerriglieri palestinesi (laici o religiosi che siano) attaccano con i mezzi di cui dispongono
un posto di blocco dell’esercito israeliano, è terrorismo? No! Marisa Musu si scandalizzava per
alcune ambiguità in proposito della stessa Liberazione (anch’io mi indigno ogni volta che un’azione
militare viene attribuita sul nostro giornale al "terrorismo" o al mostro "integralismo islamico",
pur essendo promossa da organizzazioni laiche). Argomento pretestuoso poi quello delle vittime
civili coinvolte per caso nell’attacco alla caserma, che è un sottoprodotto che ormai da tempo
accompagna ogni azione, fatta da eserciti o da guerriglieri. O vogliamo definire "terrorista"
quell’attacco solo perché ha usato 250 kg di esplosivo in un automobile, anziché in un missile o un
proiettile o una bomba di aereo? Per me, in una bomba o un camion, sempre esplosivo è. La scelta dei mezzi
dipende dalle condizioni in cui si comincia a lottare (dateci i vostri aerei, diceva un algerino,
e vi daremo le nostre sporte della spesa con esplosivo).

E dobbiamo poi anche dire cos’è questa guerra infinita. Non possiamo limitarci a discutere volta a
volta le mistificazioni con cui viene giustificata (anche la prima guerra mondiale veniva
presentata d’altra parte in Italia come "quarta guerra di indipendenza", o necessaria risposta a
inesistenti mutilazioni di bambini belgi da parte di crudelissimi tedeschi, ed era falso). Dobbiamo capire
a che serve questa guerra, qual’è la sua vera logica e motivazione.
Questa "guerra dei trenta anni" è stata aperta nel 1989 con l’invasione di Panama per catturare
l’ex complice Noriega, poi è passata nel 1991 in Iraq per punire un’altro ex protetto, Saddam, poi
si è spostata in Somalia, nei Balcani, in un Afghanistan che praticamente non esisteva più dopo
decenni di interventi stranieri, ora di nuovo in Iraq. È stata teorizzata già allora da Runsfeld e
altri fondamentalisti USA con la buona ragione che per continuare a tenere alte le spese militari
una volta crollato il "nemico storico", bisognava trovarne un altro.

Che c’entrano con tutto ciò "i terroristi"? Tra l’altro i talibani, che avevano avuto buoni
rapporti con gli Stati Uniti, e in particolare con la cinica Condoleezza Rice, si erano dichiarati
disposti a estradare Bin Laden in un paese neutrale purché fosse processato da una corte
internazionale. Non hanno avuto nessuna risposta: non sapevano che erano stati scelti come pretesto per quella
guerra, che non era finalizzata alla conquista (l’Afghanistan è poverissimo) ma all’installazione
di basi militari statunitensi in tutti i paesi limitrofi. Una misura inutile ai fini di una
"guerra" inesistente, che bombardava le macerie di un paese già distrutto e non in grado di difendersi,
ma utilissima per cingere d’assedio un potenziale rivale militare (la Russia, se avesse un giorno
un sussulto nazionalistico di dignità) o economico (la Cina).

Molte delle formulazioni di Bertinotti sul terrorismo sarebbero condivisibili se riferite alla
sola Al Qaeda (la sua specularità rispetto agli USA, con la pretesa di entrambi di decidere le sorti
dell’umanità e dei popoli dal loro luogo di comando), e se non cadessero su una scena politica
inquinata da una martellante campagna che presenta come "terrorismo internazionale" ogni azione di
resistenza di qualsiasi popolo.
Giusto anche dire che non possiamo battere questa violenza monopolizzata con la guerra (ma chi di
noi dispone della guerra?). E più in generale, c’è forse tra noi chi difende o propaganda il
terrorismo?

Ma l’errore di fondo è quello di trasformare in "soggetti politici" sia la guerra che il
terrorismo, di cui per giunta si dice contro ogni evidenza che "non è vero che è un derivato della prima".
Ma c’era questo "Terrorismo" prima che i Bush 1° e 2°, la Thatcher e Blair, Sharon e altri soci,
dichiarassero guerra al mondo?
Dell’impossibilità di parlare di un solo terrorismo abbiamo già detto, ma che vuol dire
quest’altra astrazione? Non esiste neppure "la guerra" come soggetto politico, esistono le concrete
politiche di alcuni paesi imperialisti, compresa l’Italia (rimasta per un po’ in disparte per la
dimensione dei movimenti pacifisti), che usano la forza preponderante di cui dispongono per imporre il loro
dominio. E mi pare almeno ingenuo dire che "guerra" e "terrorismo" si contrastano "con la pace" e
"con un popolo della pace". Cos’è "la pace"? Un termine più che ambiguo, caro non solo ai papi che
non vogliono entrare nel merito di chi è responsabile, ma anche dei governanti più cinici.

Non
solo nella prima guerra mondiale, ma perfino nella seconda guerra mondiale si è abusato nella
propaganda delle "proposte di pace": lo ha fatto perfino Hitler, che nel settembre 1939 denunciava -
spalleggiato da Molotov - Gran Bretagna e Francia come potenze guerrafondaie perché rifiutavano le sue
proposte di pace.
Per questo ho sempre preferito, quando ho potuto spiegarmi distesamente, dichiararmi "contro la
guerra" (che è un concetto concreto) e non "per la pace", a favore della quale il nostro governo ha
fatto le "missioni di pace" con alpini, carabinieri, portaerei ecc. Naturalmente, dato che
considero positivissimo il fenomeno del pacifismo, del "popolo della pace", indipendentemente dai suoi
livelli di coscienza, ho messo fin dall’inizio al balcone la bandiera dei sette colori, e la
conservo ancora esposta.

Comunque nel lungo discorso di Bertinotti si parla di tante altre cose che mi lasciano molto
perplesso. Che vuol dire che Hiroshima sarebbe stata "legittima"? Ma tutti sanno che il Giappone era
già piegato e pronto alla resa, e quella bomba serviva soprattutto come intimidazione all’Unione
Sovietica! E se in Europa la seconda guerra mondiale aveva tra i suoi diversi significati anche
quello (prevalente) di resistenza alla barbarie nazista, in Asia e nel Pacifico, accanto alla
resistenza del popolo cinese, e alle lotte di liberazione di vietnamiti, coreani, filippini, c’era un
conflitto tra due imperialismi, quello giapponese e quello statunitense, di cui è difficile dire chi
fosse migliore dell’altro.

E che vuol dire che neppure noi siamo stati angeli, nel contesto di Auschwitz e Hiroshima? Noi,
come movimento operaio, perché no? A meno che non si voglia alludere alla politica di spartizione
del mondo di Stalin con Hitler prima e con Churchill poi, ma è tutt’altra cosa (e qualcuno ha saputo
combattere già allora questo adattamento dell’URSS alle logiche dell’imperialismo).

Affrontare in questo modo nodi politici e teorici così complessi mi sembra pericoloso, in un
partito senza un’attività di formazione, e sottoposto a spinte molteplici. Certo ha spaventato di più
la base del partito la sommaria liquidazione dell’analisi materialistica della religione, o leggere
su Liberazione che Marx faceva la rivoluzione per i capitalisti, e soprattutto il sospetto che si
arrivasse a una Bad Godesberg strisciante, anzi a una Bolognina (la maggiore preoccupazione di
certi compagni fu allora ed è oggi quella della perdita del nome...). Le pagine delle lettere sono
diventate prima tre, poi addirittura quattro, senza che ci fosse davvero più spazio per la
riflessione. Al massimo potrebbe servire come sondaggio sullo stato d’animo del partito, se sapessimo
quante e quali lettere sono state cestinate, e come sono state tagliate quelle pubblicate.
Fin dai primi tempi dell’esistenza del partito, ho sempre riproposto l’unica soluzione realistica:
fare un bollettino interno dalla veste modestissima e una tiratura corrispondente a quella parte
non grande dei nostri iscritti disposta a leggere cinque o sei interventi di una certa ampiezza,
che si confrontino ad armi pari (con la possibilità di risposta, cioè, anche per chi non è il
segretario generale...). Altrimenti "Liberazione" diventerà sempre meno un vero giornale, e la
confusione aumenterà a colpi di letterine che non riescono a esprimere quasi nulla.

(a.m.)