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Mostri pieni di speranza-considerazioni sul 4 ottobre...
Publie le domenica 19 ottobre 2003 par Open-PublishingMostri pieni di speranza
considerazioni sul 4 ottobre e dintorni
Sulle questioni del 4 ottobre si sono spese molte parole, alcune costruttive, altre criticabili,
altre ancora fastidiose. Parole private stranamente divenute pubbliche, altre pubbliche che
rischiavano e rischiano di divenire ?affare privato?. Quelle che seguono sono alcune parole parziali
(perché frutto di una rielaborazione e di uno sforzo interpretativo successivo, fatto da alcune e
alcuni di noi) di narrazione del discorso e del dibattito, acceso e variegato, di una comunità
territoriale che ha deciso da tempo di aprire una sperimentazione all?interno dello spazio politico della
disobbedienza. Una comunità fatta di conflitti e di relazioni quotidiane, di progetti, di ricerche
differenti, di percorsi, anche di errori e di ripensamenti che parlano della costruzione ?qui e
ora? di un altro mondo possibile. Non si candida ad essere quindi né un riassunto della discussione
né tanto meno la risposta di un esecutivo informale ad un altro esecutivo, perché nulla di ciò che
attraversa le
nostre esperienze fa parte di questo metodo di relazione. Si tratta inoltre di un testo che non
ha nessuna intenzione di congelare la discussione sul bene e male di quanto è accaduto il 4, ma che
piuttosto legge quell?evento come un momento di un processo più esteso e articolato. Non è un caso
che 3 giorni dopo ci siamo trovati a dover rispondere alle perquisizioni e a alle accuse che hanno
investito uno dei percorsi che ci riguardano in modo centrale e significativo: ACTIon e la nuova
ondata di occupazioni di case nella città di Roma, ma anche la vicenda di Nunzio D?Erme e la
questione del rapporto tra movimenti e municipalità, tra conflitti sociali e partecipazione. Per questo
è nostro interesse parlare dell?Eur senza scollegarne le considerazioni da ciò che ci aspetta e
dalla strada ancora da percorrere, senza tralasciare le valutazioni critiche, ma senza farne
vettore di arretramento e di paralisi.
Da tempo abbiamo consegnato al dibattito di movimento la segnalazione critica dell?esaurimento
della forma del controvertice, parlando della necessità di aprire un nuovo ciclo di lotte del
movimento globale, né destinato ad un ripiegamento localistico dei conflitti, né tanto meno alla
ripetizione priva di innovazione e di ricerca. Ci siamo interrogati quindi su come attraversare in
termini nuovi le scadenze del movimento dei movimenti riaprendo la sperimentazione delle pratiche ma
anche tentando di saldare le reti e i conflitti sociali con la produzione di eventi. Tutto questo
nella consapevolezza che tra locale e globale non si dà più differenza e che esaltare e praticare
(nel senso di p-r-a-t-i-c-a-r-e!) l?articolazione sociale delle resistenze non può essere disgiunto
da quei momenti di condensazione e di produzione di senso e di immaginario che gli eventi di
contestazione dei nuovi poteri globali hanno offerto e offrono tutt?ora. Ci sembra minimalista dire che
tutto possa
risolversi nelle articolazioni di conflitto delle reti sociali (ammesso sempre che si assuma fino
in fondo la responsabilità di dare conseguenza pratica a queste valutazioni), così come eludere il
problema di dare gambe sociali all?orizzonte globale dei movimenti e di evitare che questi
assumano una tinta etica e di testimonianza che con facilità si presta alla sussunzione delle vecchie
linearità politiche.
Il 4 ottobre è stata per noi occasione di provare a tenere assieme praticamente queste
considerazioni. L?abbiamo fatto articolando un percorso che dall?occupazione dell?università ci ha portato
alla protesta ?profumata? davanti a Palazzo Grazioli, alla spinellata di massa sotto palazzo Chigi
contro le leggi proibizioniste, alla definizione dell?assedio pomeridiano al vertice Ue con il
tentativo molteplice, a partire dall?esperienza di ribellione di Cancun che molti di noi avevano
vissuto, di violare le zone rosse per esprimere e far ?entrare? i contenuti e i diritti dell?altra
Europa laddove le voci di tante e di tanti erano state negate.
Come tutti i tentativi e le sperimentazioni anche il nostro, che si è inserito in una latitanza e
in un silenzio assordante nelle interrogazioni che abbiamo aperto nei confronti degli altri
soggetti e delle altre componenti organizzate di movimento, non ha funzionato alla perfezione. Nessuno
di noi ha deciso di nasconderselo né tanto meno di eludere un piano di rielaborazione complesso,
critico e ricco di differenze. Ma tutto ciò lo si è fatto nell?ottica di consegnarlo ?in avanti? al
dibattito del movimento tutto e non di farne uno strumento utile alla ?resa dei conti? e al
congelamento di un processo di crescita che evidentemente non pone problemi solo a noi.
Abbiamo provato in modi diversi a fare di nuovo della pratica della disobbedienza uno spazio
attraversabile ed includente, percorrendo, tra le altre, la sperimentazione di un ?divenire minore?
(vedi l?esperienza delle donne) della disobbedienza stessa. Nonostante questo, riconosciamo senza
esitazione che alcuni elementi non sono stati in grado di farlo, né tanto meno di produrre senso e
immaginario capaci di eccedere e di estendere il consenso oltre la gabbia dei media main strema,
così come eravamo riusciti a fare in altre occasioni. Siamo nello stesso tempo consapevoli che gli
stessi media main stream sono attraversati da conflitti per nulla risolti e che hanno reso evidenti
alcuni orientamenti politici pre-giudiziali con cui inevitabilmente dobbiamo fare i conti.
Nella sperimentazione del 4 pomeriggio abbiamo tentato di articolare un dispositivo complesso e di
composizione di pratiche e proprio perché assumiamo fino in fondo la questione della laicità degli
strumenti riteniamo che alcuni non abbiano aiutato l?efficacia di ciò che abbiamo fatto. Non è
nostra intenzione però consegnare queste valutazioni ad una lettura tutta calibrata sulla questione
violenza/non violenza, terreno di misura nella qualificazione delle pratiche che già da tempo e in
termini costitutivi del nostro percorso politico, territoriale e nazionale, abbiamo superato. E?
indubbio che i conflitti prodotti dall?esperienza di ACTIon si prestano con maggiore facilità ad
una coincidenza vincente nel rapporto tra conflitto e consenso ma non per questo pensiamo che lo
stesso problema vada eluso e schiacciato interamente sulla gabbia, a volte artificiale e non
misurata sulla dimensione sociale dei conflitti che articoliamo, del consenso e della non-violenza. Non
riteniamo infatti
che la misura del consenso sia definita semplicemente dalle relazioni interne tra le componenti
organizzate del movimento ma che vada qualificata a partire da quella eccedenza che questo
movimento fino ad oggi era stato in grado di determinare e di attrarre e che adesso sembra essere
dimenticata. Ci sembra paradossale, inoltre, esaltare la proposta politica di ACTIon e di seguito
reintrodurre, in termini congelati il dualismo violenza/non violenza, quando l?occupazione di una casa
così come le forme di resistenza di fronte ad uno sgombero interrogano nuovamente, a nostro avviso
in avanti, la stessa questione. Altrettanto assurdo ci sembra poi esprimere consonanza con fenomeni
di ribellione sociale dislocate nell?orizzonte globale (vedi Cancun) e poi tacciare di
avanguardismo quelle forme anche problematiche e criticabili di espressione della nostra composizione sociale
(studenti, precari, migranti?).E? indubbio che il problema di rendere visibili questi nessi di
relazione tra
composizione sociale e pratiche dobbiamo tentare di non schiacciarlo dentro una determinazione
tutta organizzativa. Per questo un po? di tempo fa ci siamo interrogati su come fare della
disobbedienza non più un logo ma spazio politico attraversabile all?interno del quale articolare le
resistenze sociali.
Su questo, inoltre, riteniamo che sia fondamentale (e questo stiamo tentando di fare oltre e dopo
il 4) la questione dell?autonomia del movimento, in una fase in cui tutto ci fa pensare ad una
ridefinizione delle forme tradizionali del politico. Quando diciamo questo non abbiamo di certo
intenzione di riprodurre una separazione, ormai inservibile, tra politica e sociale. Da una parte
perché per primi abbiamo analizzato e praticato la crisi delle forme di rappresentanza nel contesto
biopolitico (dove il sociale produttivo ?nuove forme di lavoro, di vita e di cittadinanza- si riempie
di politicità e la sintesi e la riduzione non sono più in grado di dare risposta alle esigenze
della moltitudine), dall?altra perché, come movimento, abbiamo assunto la coincidenza innovativa di
politica e sociale come terreno di sperimentazione costitutivamente inassimilabile tanto dalle
forme della politica partitica quanto da quelle dell?antagonismo tradizionale.
Crediamo, con questo contributo, di consegnare a tutt@ uno stimolo per riprendere a camminare e
interrogarsi positivamente sui limiti e le virtù del progetto e dell?esperienza di cui siamo parte.
Alcune voci dall’assemblea romana delle e dei disobbedienti