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No all’islamofobia, ma senza nascondersi le contraddizioni del risveglio islamista

Publie le venerdì 9 gennaio 2004 par Open-Publishing

Sembrerebbe che "l’unica grande forza dinamica, capace di muovere grandi masse, sia oggi la
religione, spesso, purtroppo, nella sua versione fondamentalista. Guardate che cosa è stato ieri e sta
diventando oggi l’Islam". Con queste parole, forse, la compagna Rina Gagliardi pensa di spiegare la
"nuova" "forza propulsiva" del risveglio religioso? Peccato che questa frettolosa analisi non
faccia i conti davvero con le catastrofi che si sono abbattute sull’Algeria, sulla Palestina e che ora
si delineano anche nell’Iraq che lotta contro l’occupazione militare imperialista.
La campagna islamofobica scatenata in Occidente dopo l’11 settembre si combatte solo spiegando che
l’Islàm non è il nemico assoluto e che con la repressione contro le donne, i giovani, ecc. il
testo del Corano non c’entra? No. Se è sacrosanto spiegare che nell’Iran degli anni settanta la
rivoluzione khomeinista fu una vera rivoluzione popolare, in cui milioni di persone affrontarono a mani
nude uno degli eserciti più moderni del mondo, ciò non ci esime dallo spiegare che il consenso
ottenuto tanto rapidamente (di fatto in pochi mesi) dai Mullah e da Khomeyni non fu casuale o,
peggio, "naturale".

La spiegazione risiede nel fatto che molti anni prima del 1979, negli anni venti e
trenta, il Tudeh, il partito comunista iraniano, si era appiattito supinamente agli interessi
dell’Urss stalinizzata che in quel paese proseguì, senza troppe differenze, la politica zarista di
spartizione in "condominio" con le potenze imperialiste, in primo luogo la Gran Bretagna, delle
risorse naturali iraniane.
Di quelle scelte miopi pagarono un prezzo altissimo gli stessi comunisti iraniani, che in diverse
ondate repressive furono quasi sterminati fisicamente. Il prezzo a lungo termine fu l’oscillazione
anche nel momento in cui lo Scià era in forte declino. Questo fu uno degli elementi determinanti
per la prevalenza dell’elemento religioso, come collante politico, nella rivoluzione iraniana.

Successivamente, negli anni ottanta e novanta del novecento, anche in altri paesi, che non avevano
una tradizione di particolare attaccamento alla religione, anzi tutt’altro, essa ha avuto il
sopravvento. Anche noi vogliamo credere che per alcuni popoli questo "ritorno alla religione" sarebbe
naturale? Se si accetta questo, diventa inspiegabile la tragedia algerina. La rivoluzione algerina
è stata laica. Le analisi di Fanon spiegavano in modo lucido come lo stesso colonialismo francese,
nei momenti di difficoltà, sfruttasse l’Islàm per impedire la partecipazione alla rivoluzione
delle masse più arretrate. Abbiamo già dimenticato, o meglio, rimosso che il gruppo dirigente della
rivoluzione algerina non fece mai uso della religione come strumento, se non per convincere ebrei e
francesi stessi che non c’era alcun elemento razzista?

L’ascesa del Fronte Islamico di Salvezza -Fis- non è stato "fatale": esso viene fuori dalle stesse
fila del Fln e dell’esercito algerino. Il perché non è difficile da individuare. Il Fronte di
Liberazione Nazionale algerino degli anni ottanta non era quello che aveva fatto la rivoluzione, il
gruppo che proveniva dal Marocco e fece il colpo di stato nel 1965, con a capo Boumedienne,
smantellò il vecchio gruppo dirigente. Questi ufficiali non avevano preso parte alla rivoluzione ed una
volta preso il potere misero in carcere o costrinsero all’esilio i protagonisti della lotta
d’indipendenza. Ben Bella rimase quindici anni nelle carceri algerine ed una volta liberato fu costretto
all’esilio, in Svizzera.

Il vero detonatore della crisi algerina, che ancora oggi si trascina con una scia di migliaia di
morti, fu l’accettazione da parte di Boumedienne delle imposizioni del Fondo monetario e della
Banca mondiale che fecero pagare all’Algeria interessi sul debito che superavano di dodici volte il
ricavato del petrolio. Questo a metà degli anni ottanta significò una drastica riduzione delle spese
per l’istruzione, la casa e la sanità.
Nel 1989 con l’aumento del cous-cous (alimento base per gli algerini, come per la gran parte dei
paesi magrebini) nelle strade di Algeri studenti, donne, lavoratori e disoccupati dettero il via a
manifestazioni di piazza represse con i carri armati dal Fln. Decine di morti restarono sul
terreno, fu così che il Fis conquistò i giovani, la maggioranza della popolazione algerina, alle sue
predicazioni. In realtà le moschee sarebbero rimaste poco frequentate se non ci fosse stata la
repressione.

Questo ci fa intendere non solo che la vittoria del Fis, due anni dopo alle elezioni
amministrative, non era né fatale né scontata, ma soprattutto che in realtà il Fis, con la sua influenza
regressiva sulla società algerina, era funzionale alla continuazione della politica del Fln.
L’altro caso eclatante che da tempo turba i sonni della sinistra italiana ed europea è la
Palestina. Molti si sono ormai rassegnati alla vulgata che vuole il popolo palestinese preda senza futuro
delle formazioni islamiche. Non si può entrare troppo nel dettaglio. Ma alcuni dati di fondo della
rivoluzione palestinese, ancora non abbandonati dai palestinesi stessi, ci dicono che non possiamo
accettare scorciatoie di comodo. Certamente, nei nostri mass media oramai ogni azione che mette in
discussione l’ordine esistente: lotta per l’autodeterminazione, guerriglia contro un’occupazione
militare, lotta per l’emancipazione di popoli ed individui, viene ricondotta ad un’unica "centrale
islamica del terrore".

I palestinesi da anni ormai sono stati collocati ai primi posti di questa
scellerata classifica. Pochi, anche a sinistra, si chiedono se è mai possibile ridurre una lotta di
liberazione che dura da molti decenni a mero strumento di un’improbabile centrale del terrore.
Anche la compagna Gagliardi accetta questa scorciatoia. Il popolo palestinese è il più colto ed il
più laico dell’intero Medio Oriente. Nulla è più falso del pensare alle rivolte palestinesi
(potremmo partire fin dal 1936) come a rivolte in cui abbia un peso reale l’elemento religioso. Per quanto
possa sembrare paradossale neanche le due formazioni islamiche palestinesi, Hamas e Al Jihad Al
Islami, fanno più di tanto riferimento al Corano, nei loro programmi. Esse sono, al contrario, molto
pragmatiche. Ed è proprio questo pragmatismo che ha consentito la loro crescita in termini di
consenso, non tanto in termini di militanza attiva.

D’altronde, anche qui, non si può dimenticare come fin dall’inizio degli anni ottanta Israele
abbia ampiamente foraggiato Hamas in contrapposizione all’Olp, che al suo interno vedeva e vede
dirigenti sunniti, cristiani, laici, ecc. Ma le diverse origini religiose non hanno mai, in assoluto,
influito sulla politica dell’Olp, né durante l’esilio né dopo gli accordi del 1993 che consentirono
ad alcuni leaders fra cui Arafat il rientro nei Territori Occupati. Si pensi che nel 1994 per
effetto delle politiche repressive israeliane l’unica università aperta a Gaza era quella islamica
controllata da Hamas.
Nonostante questo il vero consenso ad Hamas viene dal fatto che l’Olp, divenuta Anp, ha accettato
per troppo tempo compromessi al ribasso con Israele, trasformandosi, in non poche occasioni, nel
poliziotto che fa il lavoro sporco.

E’ così che vengono fuori i primi attacchi suicidi nel 1996,
non solo in nome del Corano o di Allah, ma soprattutto contro la rinuncia alla lotta contro
l’occupazione militare che si era mitigata ma mai annullata.
Anche la seconda Intifada nata sull’onda della provocazione di Sharon che passeggia sulla Spianata
delle Moschee, ma frutto soprattutto delle politiche proditorie di Ehud Barak, nonostante tutto
resta sostanzialmente laica. Per altro non bisogna confondere il diritto ad esercitare il proprio
culto religioso con la sostanza di ciò che avviene in Palestina. Dal 2000-2001 l’esercito israeliano
impedisce agli uomini d’età compresa fra i 15 e i 45 anni di raggiungere per la preghiera del
venerdì la Spianata delle Moschee a Gerusalemme. Chi scrive non ha dubbi nel difendere il diritto di
ogni palestinese, uomo o donna, giovane o adulto, o anziano di raggiungere la Moschea di Al-Aqsa,
residente o meno a Gerusalemme.

Esattamente come difenderebbe, se fosse negato, il diritto agli
ebrei di pregare nelle sinagoghe ovunque si trovino (purché non siano roccaforti militari travestite
come nel caso della tomba di Rachele a Betlemme o la tomba di Giuseppe a Nablus), o ai cristiani
di raggiungere le chiese. Ciò non c’entra alcunché con la rivolta in atto. E confondere le due cose
è pericoloso, perché si fa il gioco del nemico. Nonostante sia in carcere uno dei leaders più
importanti dell’Intifada è Marwan Barghouti, assolutamente laico, capo dei Tanzim, organizzazione
anch’essa laica, contro cui non a caso l’esercito israeliano ha scagliato una repressione feroce. E’
di pochi giorni fa la notizia che il figlio di Marwan Barghouti è stato arrestato per far pressione
sul padre. Tanta è la paura che l’oppressore ha di un uomo rinchiuso in isolamento.

Nonostante tutto l’Intifada di Al Aqsa (nome che deriva dall’episodio, non dalla moschea in quanto
tale) è stato il momento in cui in tutto il mondo arabo (dall’Egitto, alla Giordania, alla Siria)
le manifestazioni popolari in appoggio ai palestinesi sono state più le intense e sistematiche
mai viste, con milioni di persone scese in piazza. Ciò non è stato prodotto dal sentimento
religioso.
Diciamo tutto questo perché abbiamo netta l’impressione che dietro l’accettazione di scorciatoie
interpretative ci sia la difficoltà per la sinistra italiana di fare i conti con i propri errori,
passati e recenti.
Restiamo convinti che l’aspirazione alla giustizia sociale, la lotta contro l’oppressione e la
repressione delle occupazioni militari sparse per il nostro sfortunato pianeta resti, nonostante le
apparenze, il motore che muove masse di persone a ribellarsi contro l’ordine esistente.

Con i mezzi
a propria disposizione. Come d’altronde crediamo che lo stesso motore abbia mosso in questi ultimi
quattro anni milioni di persone a scendere in Europa e negli stessi Stati Uniti a scendere in
piazza, moltissimi per la prima volta in vita loro (vecchi o giovani che fossero), a lottare contro la
guerra e contro l’organizzazione capitalistica del pianeta che porta solo sfruttamento, povertà e
violenza.
Facili e comode marce indietro nell’interpretazione della complessità del mondo in cui viviamo
rischiano di vederci complici, coscienti o meno ha poca importanza, del perpetuarsi di tutto ciò che
vogliamo combattere.