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Nonviolenza, l’arma più forte di cui oggi disponiamo

Publie le domenica 18 gennaio 2004 par Open-Publishing

L’intensa discussione, che si va sviluppando da molti giorni sulle colonne
del nostro giornale, suscita interesse e attenzione anche al di là delle
nostre fila, nella sinistra, nel movimento, nel sistema dell’informazione.

Ne prendiamo atto con soddisfazione: è una prova in più che questo
dibattito "molteplice" - anzi, questi dibattiti che si susseguono e,
talora, si intrecciano su questioni politiche e ideali di prima grandezza -
non è mosso da spirito autoreferenziale. E’ un confronto vivo che ha a che
fare, non a caso, con la politica viva del presente, dove si misurano non
solo posizioni diverse, ma culture politiche, esperienze e spesso "vissuti"
tra di loro lontani. Noi, per parte nostra, abbiamo cercato di garantire
sia la pari dignità di tutte le voci, interne ed esterne a Rifondazione,
che hanno voglia di farsi sentire, sia di contribuire, per come possiamo,
ad una "buona dialettica": ovvero ad una discussione che, senza pensare a
sintesi oggi impossibili, ci arricchisca, ci aiuti a fare un passo avanti,
nella comprensione e nella chiarezza reciproca.

Con questo articolo, vogliamo anche noi dire la nostra, misurandoci con
quel nodo teorico-politico, violenza e nonviolenza, che appassiona non da
oggi il movimento operaio e la sinistra.

E diciamo subito - da militanti comunisti, diversi per sesso e generazione,
per pratica di vita e riferimenti culturali - che l’opzione strategica
pacifista e nonviolenta, che Fausto Bertinotti ha avanzato e Pietro Ingrao
ha rilanciato proprio su "Liberazione", ci persuade profondamente. Ovvero:
è la stessa scelta che abbiamo maturato in questi anni, nel fuoco dei
conflitti drammatici che hanno devastato il mondo, nel dipanarsi concreto
dell’impegno.

Non è in questione, s’intende, un "assoluto" che, chissà perché, molti
compagni vedono o paventano tutte le volte che viene dichiarata la
necessità di una pratica nonviolenta: per noi laici e comunisti non
esistono mai "assoluti" o fedi astratte, al di là del tempo e dello spazio.
E’ in questione, ci pare, un’idea della politica e - se la parola non è
troppo grossa - della rivoluzione del futuro: nell’era della guerra
globale, infinita e preventiva, la violenza non è più una via di autentica
liberazione dei popoli, delle classi e delle persone e, al tempo stesso,
non è più uno strumento capace di garantire la "vittoria finale". Nell’era,
insomma, della spirale guerra-terrorismo, che concerne il "qui" e l’"ora"
del capitalismo globalizzato, il terrore è tutto dell’avversario e dei suoi
apparati colossali di sterminio e di morte: gli appartiene fino in fondo,
perfino come vocazione e come nuova idealità. Ce lo spiega bene Kagan,
teorico dei neocons nordamericani, nel suo lucido pamphlet "Il Paradiso e
il Potere", quando contrappone la civiltà dell’America fondata sulla forza
militare e sullo spirito di aggressione alla civiltà dell’Europa,
continente "imbelle" e vocato ai diritti sociali piuttosto che alle armi.

Questa nostra persuasione è il risultato, anche e soprattutto, dei nostri
rispettivi percorsi di vita. Noi non siamo nati pacifisti: abbiamo creduto
nella "guerra giusta" e nel valore liberatorio della guerra e della
guerriglia di popolo. Uno di noi ha partecipato, giovanissimo, alla
Resistenza: ha impugnato le armi, da partigiano, ha praticato
l’antifascismo. E non solo non se ne pente, ma continua ad andare
orgoglioso del proprio passato. Una di noi ha condiviso, finché è stata
giovane, le lotte, anche quelle "dure" dei movimenti occidentali e quelle
armate dei movimenti di liberazione del Terzo Mondo. E non ha nulla di cui
pentirsi. C’è stata un’epoca della nostra storia nella quale la violenza
delle armi ci è apparsa non solo una risposta necessaria alla violenza del
potere, ma anche la risposta più radicale, più in sé rivoluzionaria, più
efficace: la Resistenza ha vinto, la lotta del popolo vietnamita ha vinto,
il movimento di liberazione dei popoli colonizzati ha vinto. Non si tratta
certo oggi di proiettare su questo passato le idee che abbiamo maturato nel
presente: questo sì sarebbe puro "pentitismo", opportunismo oltre tutto
antistorico. Si tratta di ben altro: far tesoro di quelle esperienze, anche
alla luce di alcuni, forse non casuali, esiti negativi, mettendone in causa
il valore assoluto e l’attualità schematica.

Oggi, insomma, sentiamo la necessità di una strada nuova, di nuovi
percorsi: un ciclo della storia si è chiuso, con il ‘900, un nuovo ciclo
può avviarsi. L’immagine che abbiamo ancora negli occhi è quella dei 110
milioni di persone che nello stesso giorno di febbraio sono scese in
piazza, in tutto il mondo, contro la guerra di Bush. Quelle masse, che il
"New York Times" ha definito la "seconda potenza mondiale", hanno fatto
paura, davvero, ai nostri avversari imperiali. Non sono riusciti, no, a
impedire la guerra: ma hanno pur segnato un gigantesco salto di qualità, di
coscienza critica, di consapevolezza, di soggettività. Un patrimonio
immenso, anche dal punto di vista della forza, che a tutt’oggi domanda alla
politica una risposta adeguata.

La nonviolenza, dunque, come pratica alta del conflitto - come opposto
della passività o della rassegnazione - è oggi l’arma più forte di cui
disponiamo. La nonviolenza, anche, come "smilitarizzazione" delle nostre
coscienze e della politica (che continua, proprio nel suo linguaggio tutto
nutrito di "tattica", "strategia", "schieramento", "obiettivo",
"battaglia", a mostrare il suo profondo spirito bellico), nella sua
connessione profonda con la società altra che vogliamo costruire.

Non siamo "anime belle", siamo ahimè fin troppo contaminati con le brutture
che ci circondano, e conosciamo tutte le sottigliezze della politica e
della Realpolitik: ma non è l’ora di cominciare a colmare l’abisso che
separa i nostri valori generali dalle nostre pratiche? Ma davvero possiamo
continuare in eterno a propugnare una distanza - così "assoluta" - tra i
fini che ci proponiamo e i mezzi che mettiamo in atto per realizzarli?
Torna a proposito, qui, la questione del terrorismo, dal quale siamo sempre
stati lontani e che mai ci è appartenuto, anche per le ragioni che
osservava ieri Lidia Menapace.

E’ vero, sì, che i nostri avversari battezzano sotto la dizione di
"terrorismo" anche ciò che è pura resistenza all’invasore. E forse hanno
ragione quei compagni che dicono che ci sono luoghi del mondo in cui la
nonviolenza è una pratica difficile, quasi impossibile, se non un lusso:
infatti noi non ci permettiamo di criticare coloro che, di fronte ad
aggressioni od invasioni armate, reagiscono anche impugnando le armi.

La nonviolenza, lo dicevamo, non è un imperativo categorico. E tuttavia,
anche nel passato recente, ci sono esempi significativi sui quali
riflettere. La prima Intifada palestinese, quella nonviolenta, con i
ragazzi che si opponevano alla potenza dei carri armati israeliani con le
fionde e con i sassi, conquistò nel mondo un consenso enorme alla causa
dell’indipendenza nazionale palestinese: avrebbe potuto vincere, se
l’Europa, invece di limitarsi ad applaudire, fosse intervenuta ed avesse
messo in campo la sua potenza politica.

Oggi, quali sono le prospettive concrete di vittoria della lotta e della
guerriglia armata nel Medio Oriente? A parere quasi unanime, nessuna. E
quegli attentati suicidi - come l’ultimo della giovane madre che voleva
essere martire - possiamo sì distinguerli dal terrorismo e battezzarli
"azione di guerriglia militare", se hanno soldati nemici come bersaglio. Ma
possiamo tacere del loro carattere feroce, disperato, perdente? Quando una
lotta di liberazione entra in contrasto così totale con i valori della
vita, della speranza, della costruzione, quando il sacrificio di sé è
ricercato come valore e perfino simbolo positivo, vuol dire che in essa la
dimensione della tragedia è diventata dominante. Vuol dire, anche, che
forse non si è abbastanza riflettuto sul fatto che, anche e soprattutto là
dove l’oppressione e la prevaricazione sono massime, la violenza del
potere, introiettata e metabolizzata senza anticorpi, produce una violenza
distruttiva uguale e contraria.

L’aveva scritto Marx, un secolo e mezzo fa: la nostra rivoluzione dovrà
essere un processo di lunga durata, di "rivoluzionamento" dei rapporti
economici e sociali esistenti, anche perché soltanto in un processo di
lunga durata potremo liberarci dal "sudiciume" che la società del capitale
ha disseminato in ciascuno in noi. Era già questa un’idea di rivoluzione
nonviolenta, di comunismo. Che oggi, soltanto oggi, possiamo cominciare a
praticare. Almeno, a provarci.