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Palestina: stato binazionale, novità? Solo per la sinistra italiana

Publie le sabato 17 gennaio 2004 par Open-Publishing

Una messa a punto di C. Nachira sulla Palestina, e un articolo di M. Warshawski

La scenografia era perfetta: sembrava un vero accordo. Sembravano veri, ma non lo erano.
Gli artefici degli accordi di Ginevra, Yossi Beilin e Yasser Abd Rabbo, hanno sempre saputo che
nella grande sala del parlamento europeo si stava svolgendo una pantomima a cui non credevano per
primi loro. Ma allora perché farla? Perché i due uomini politici hanno una caratteristica in comune:
la necessità di riciclarsi nel momento opportuno come punti di riferimento.

Sia Abd Rabbo che Beilin hanno subito una pesantissima sconfitta politica all’interno dei
rispettivi campi politici. Beilin sicuramente ha un problema in più rispetto al suo omologo palestinese.
Egli, infatti, non era a Ginevra, quel primo dicembre 2003, solo a nome proprio, ma a nome del
partito laburista israeliano. Esso dopo aver subito la sconfitta elettorale che nel 2001 consentì a
Sharon di tornare trionfalmente al governo ha bisogno, come l’aria che si respira, di ridurre la
marginalità in cui l’ha ricacciato non tanto la politica aggressiva e criminale di Sharon, quanto il
fatto che esso non rappresenta in realtà una alternativa alla politica militarista e annessionista
del Likud. E’ chiaro che se continua la politica dell’espulsione non dichiarata, della spoliazione
e dell’annessione, attraverso la costruzione del muro, persino gli Stati Uniti e l’Europa (cui
solo gli ingenui o coloro che sono in malafede possono pensare di chiedere di intervenire a favore di
una soluzione equa) saranno costretti sia pur malvolentieri a ridimensionare le mire di Sharon.

Ma i punti di fondo sono altri. Gli accordi di Ginevra risolvono i nodi irrisolti dagli accordi di
Oslo e dalla Road Map? No. Lo diciamo confortati dai dati che emergono da una lettura attenta di
quegli accordi. Dal muro dell’apartheid al diritto al ritorno per i quasi sei milioni di profughi,
gli accordi di Ginevra lasciano intatti i diktat israeliani che in questi anni hanno impedito che
si potesse giungere ad un accordo.
Il punto maggiormente dolente è quello delle colonie. Beilin ha ottenuto da Abd Rabbo (ed
evidentemente da una parte del governo palestinese) che le parti di Cisgiordania in cui ci sono le più
grosse colonie di popolamento israeliane vengano annesse ad Israele. Questo non è un dettaglio.

Questo produrrà, ad esempio, che le sacche di terreno più fertilizzato dalle piogge si trovino
definitivamente in mano israeliana, così come le falde acquifere più importanti. In un paese desertico
l’oro blu, l’acqua, determina l’esistenza di milioni di esseri umani. Ci pare poco?
La sinistra europea si è letteralmente buttata a pesce sugli accordi di Ginevra, compreso il Prc,
perché?
Non è la prima volta che sottolineiamo il ruolo quanto meno ambiguo che la sinistra europea ha
giocato nei confronti della lotta di liberazione palestinese. Dopo il 1989 Occhetto, girellando per
le strade di Gaza, scoprì (bontà sua) che il sionismo era un "movimento di liberazione"
(liberazione da che?), oggi con l’appoggio acritico agli "accordi di Ginevra" si porta a termine questa
dinamica.

Non è un caso il silenzio di molti di fronte al rifiuto di questi accordi da parte di settori
larghissimi del popolo palestinese. Eppure la reazione dei palestinesi era in qualche modo scontata
(per dire questo non serve né la sfera di cristallo né informazioni particolari, ma semplicemente è
sufficiente leggere la realtà senza lenti deformanti); meno scontata è stata la sacrosanta
reazione indignata di gran parte del movimento anti coloniale israeliano. Dai gruppi di più antica data,
come l’Alternative Information Center, ai gruppi di più recente formazione come Bat Shalom, la
critica agli accordi è stata nettissima. Questi accordi servono a stornare l’attenzione dai problemi
veri, uno dei quali, probabilmente il più importante, è quello di creare in Israele una vera
alternativa politica, che alla fine riesca a portarsi dietro anche settori importanti del partito
laburista.

Questa dinamica, cui lavorano importanti settori della società israeliana, oggi si impone anche
grazie alla sortita di Abu Ala, il primo ministro palestinese, il quale di fronte all’ennesimo
ricatto di Sharon ha dichiarato che l’unica vera soluzione è "un unico stato per due popoli".
Non è la prima volta che i palestinesi si dichiarano a favore di questa ipotesi, che era stata
fatta propria per un certo periodo dalla stessa OLP nel corso degli anni Settanta per iniziativa
delle organizzazioni della sinistra laica, e in particolare del FDLP. Il primo a rilanciare
organicamente questa ipotesi fu Edward Said. Egli rimase per molto tempo inascoltato, ma oggi con tutta
l’evidenza della catastrofe imminente questa soluzione si impone come l’unica possibile. Said trovò in
Israele qualcuno, Michel Warschawski, che la pensava come lui e che con pochi altri non si è mai
stancato di ripetere che "se la separazione diviene una filosofia significa voler perpetuare il
massacro dei palestinesi e l’insicurezza degli israeliani".

Il dato di fondo, sul quale la sinistra italiana ed europea chiude gli occhi, è la crisi profonda
della società israeliana. Essa, può sembrare un paradosso, è più in crisi di quella palestinese.
Infatti se quest’ultima corre il rischio dell’annientamento, possiede anche (e la storia della
seconda Intifada - se sottratta ai luoghi comuni - lo insegna) dei possenti anticorpi, altrimenti
avrebbe ceduto molti anni fa. Mentre quella israeliana è vissuta nel sogno dell’invincibilità per
molti decenni, scontrandosi, dopo il 1982, con gli assiomi stessi della creazione dello stato come
entità etnicamente omogenea. In un’intervista recente (il Manifesto, 13 gennaio 2004) Warschawski ha
spiegato:

"Il problema riguarda il fallimento del melting pot, del "crogiolo". I padri del sionismo
pensavano a uno stato degli ebrei nei termini di uno stato omogeneo. Addirittura Ben Gurion credeva in una
forma di omogeneità che avrebbe portato tutti ad avere gli stessi caratteri somatici. (...)Lungi
dall’essere quell’insieme omogeneo che era stato teorizzato dai padri fondatori, è un sistema
complesso che ha dovuto fare i conti non solo con la presenza araba - che arriva ufficialmente al 20%
ma che nelle forme dell’illegalità raggiunge anche il 35% - ma anche con altre componenti ed etnie.
Il concetto di Israele come stato degli ebrei si sgretola quando si considera, per esempio, che
c’è mezzo milione di russi che ebrei non sono e non si considerano tali."

La sinistra europea ed italiana è rimasta sorda e muta di fronte alle parole di Abu Ala. Può
essere che le dichiarazioni di Abu Ala siano state fatte per spaventare i governanti di Israele, ma è
significativo che nulla li spaventi tanto come l’idea di fare i conti con uno stato multietnico.
Warschawski aveva cercato di spiegarci pazientemente che è difficile separarsi dai propri miti, ma
è sempre utile guardarli con distacco. Nella stessa intervista dice che:

"L’aspirazione a uno stato ebraico - laico, democratico e liberale - è legittima ma io ritengo che
tale stato non possa ispirarsi a un modello etnico; un modello che annovera fra le sue premesse il
principio di quantità. Vale a dire che io dovrei essere continuamente ossessionato dal confronto
tra il numero dei figli di una famiglia palestinese e quello di una famiglia israeliana. (...) In
uno stato di comunità, se sei il 60% o il 20% non ha molta importanza perché si gode di uguali
diritti e si ha un progetto comune. La forma giuridica potrebbe essere quella degli Usa, con una
legislazione nazionale che affianca e integra le leggi dei singoli stati."

Oggi anche in Italia la sortita di Abu Ala ci permette di riaprire il dibattito senza scorciatoie
di comodo. Se nessuno nella sinistra (tanto al Manifesto che a Liberazione, per non parlare
dell’Unità), prendeva in considerazione l’ipotesi dello stato binazionale finché la proponevano
"sognatori" come Warschawski e Said, ora almeno il Manifesto ha dovuto prenderla in considerazione, anche
se dalle domande poste a Warschawski dall’intervistatrice e dal titolo dell’intera pagina, si
capisce che si pensa a un sogno del tutto irrealizzabile. Invece è meno campato in aria questo
progetto che quello (implicito negli "accordi di Ginevra") di far accettare ai palestinesi la rinuncia al
ritorno dei profughi.

Non si capisce perché perfino sulle pagine di Liberazione o de Le Monde Diplomatique si sia dato
finora per scontato che il ritorno dei profughi metterebbe in pericolo lo Stato di Israele. L’idea
viene associata ovviamente a un rischio che gli ebrei siano gettati a mare, sottoposti a un nuovo
genocidio. Assurdo! Il ritorno dei profughi metterebbe in pericolo solo la pretesa di costruire
uno Stato esclusivamente ebraico, che assicuri con ogni mezzo la sua perpetuazione indipendentemente
dai naturali fenomeni demografici. Ma allora anche un incremento demografico più forte dei
palestinesi "metterebbe in pericolo" lo Stato di Israele... Con questa logica, se si riproducessero
troppo in fretta, domani si dovrebbero sterilizzare i palestinesi cittadini di Israele?

Terrorismo o lotta armata?

Va segnalato che Abu Ala ha in questi giorni detto altre cose interessanti che prendono di petto
il vecchio equivoco, fatto ad arte, fra terrorismo e lotta armata (la cui legittimità è
riconosciuta anche dall’Onu e dalla dottrina cristiana). Abu Ala è stato molto chiaro, e ha rifiutato di
condannare l’attacco suicida al valico di Eretz.
Questo attacco ottiene diversi risultati. Si colpiscono le forze di occupazione nel punto in cui
esse "selezionano" le famiglie palestinesi che a loro totale discrezione potranno mangiare per quel
giorno. Il valico, infatti, è uno stretto tunnel dove i palestinesi in fila dalle tre del mattino
attendono di poter entrare o meno in Israele a lavorare, sotto costo e super sfruttati. Inoltre le
forze di repressione hanno perso la testa e imposto umilianti procedure ai palestinesi che
lavorano le fabbriche al di là del confine.

Quella madre, col suo gesto, ha cercato di portare agli occhi del mondo quale sarà il futuro dei
suoi figli. Abu Ala non poteva condannare il suo gesto sia perché era diretto solo contro militari
occupanti (nessuna possibilità di chiamarlo "terrorismo contro i civili"), sia perché è evidente
quanta disperazione c’è dietro il sacrificio di una ragazza giovanissima che rinuncia ai suoi figli
e si immola sapendo che il suo aspetto gentile, la sua giovinezza, il pregiudizio che considera
incapaci di gesti simili le donne in una zona fortemente islamica, le avrebbe permesso di aggirare i
severissimi controlli e di colpire duramente gli invasori.
Finora c’erano state altre ragazze che avevano compiuto atti simili, ma venivano da altri ambienti
culturali e religiosi, e da altre zone della Palestina occupata. I leader islamici di Gaza finora
avevano vietato queste azioni alle donne, se l’hanno accettata questa volta è perché la situazione
nella zona si è deteriorata talmente da far accantonare i loro pregiudizi.

Nessun compiacimento, nessuna esaltazione, naturalmente, né da parte di Abu Ala, né da parte
nostra, ovviamente, ma umana pietà, dolore, e comprensione delle regioni che spingono a questo. Per
favore, non ci si raccontino più le solite fandonie sui "kamikaze" che si uccidono per denaro, o per
avere le 40 vergini in paradiso, o per fanatismo indotto. E si rifletta sul fatto che le più
potenti forme di repressione non possono garantire la sicurezza degli occupanti: solo una soluzione
giusta potrà spezzare la spirale. E quindi solo il ritiro delle truppe israeliane, e di tutti gli
insediamenti, che sono TUTTI ugualmente illegali!
E solo dopo si potrà cominciare a discutere del "sogno andaluso" di uno Stato plurietnico, o di
altre soluzioni. (Cinzia Nachira, 15/1/2004)

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Allegato

PALESTINA

I SILENZI DI GINEVRA

Michel Warshawski (Da Rouge, n. 2046, 08/01/2004)

Alla fine dello scorso anno, è stata solennemente siglata a Ginevra una "iniziativa di pace" da
parte di una serie di personalità palestinesi e israeliane. In seguito, le aggressioni perpetrate
dal governo di Ariel Sharon non si sono attenuate neanche un giorno. Peggio, esse hanno potuto
approfittare delle ambiguità, dei silenzi o delle colpevoli dimenticanze dei firmatari.

Da più di un mese, i media internazionali ci riempiono di articoli e di servizi sul "documento di
Ginevra", il "processo di pace di Ginevra", e diversi capi di Stato sono lietii di unire il loro
nome, e soprattutto la loro foto, a questa iniziativa: Israeliani e Palestinesi avrebbero trovato
la strada che porta a una pace durevole tra i due popoli, in conflitto da più di un secolo, come
dieci anni fa ricordava saggiamente il preambolo degli accordi di Oslo; cosa che dimentica di fare
il documento di Ginevra.

Quando "Politis" titola il numero 4 di dicembre: "Vicino Oriente, un piano di pace virtuale", pone
l’accento sul fatto che da parte israeliana i firmatari impegnano solo se stessi, senza avere i
mezzi, né oggi né nei prossimi anni, per trasformare il loro piano in un reale accordo di pace tra
le due parti: i laburisti e altri politici della sinistra sionista non stanno per riprendere il
controllo degli affari politici in Israele, screditati dal loro ex dirigente, Ehud Barak, che
continua ad affermare che i Palestinesi sono tutti terroristi e che la politica di pacificazione di
Sharon è la sola possibile.

Ma in sé, il virtuale non è necessariamente negativo. Qualche anno fa l’AIC (i Centro di
informazione alternativa Israele-Palestina) presentò a Montréal, con il sostegno di Alternative, un
"People’s Peace Plan" come alternativa a un processo di Oslo che si impantanava in una situazione che si
annunciava delle più sanguinose. Non c’è niente di male ad anticipare quello che potrebbe essere
un compromesso accettabile per le due società, israeliana e palestinese, e a sensibilizzare le
rispettive opinioni pubbliche.

Il problema dell’iniziativa di Ginevra è ciò che si farà fino a che il
piano virtuale non diventerà realtà, perché ciò che si fa - o che non si fa - oggi, determinerà in
larga misura se il virtuale potrà un giorno concretizzarsi. Proprio nel momento in cui ci si
congratulava reciprocamente nei salotti di un hotel di lusso in riva al lago di Ginevra, i carri armati
israeliani facevano quattro morti a Ramallah, uno dei quali era un bambino di nove anni. E qui sta
il problema di fondo dell’iniziativa sponsorizzata ( e finanziata ) dal governo elvetico: il
rapporto tra la pace virtuale e la guerra, questa sì reale.

Ritorno al punto di partenza

Che cosa fanno centinaia d’Israeliani, del Partito Laburista e del Meretz, che si nascondono
dietro il documento di Ginevra contro gli assassini mirati, le incursioni nelle zone palestinesi
presunte autonome, contro le colonie, contro il muro dell’apartheid che, nonostante le difficoltà
finanziarie di Israele, si sviluppa a un ritmo infernale? Per la maggioranza dei firmatari, la risposta
è: assolutamente niente, perché sostengono queste misure, perché vedono nel muro un mezzo efficace
e legittimo per lottare contro il terrorismo, perché vedono in Arafat - e non in Barak o Sharon -
il responsabile del degrado degli ultimi tre anni, perché continuano a sostenere le linee
fondamentali della sanguinosa campagna di pacificazione condotta dall’esercito israeliano.
I principali firmatari israeliani più noti considerano coloro che militano contro l’occupazione
come degli ingenui sognatori, e i soldati che rifiutano di servire nei territori occupati come dei
traditori.
È un vero peccato che i firmatari palestinesi si siano accontentati delle posizioni dei loro amici
Israeliani su un avvenire virtuale e non abbiano preteso risposte chiare sul presente sanguinoso e
concreto, e ciò nel momento stesso in cui gli Israeliani esigevano dai Palestinesi che
cancellassero ogni riferimento al passato e alle responsabilità sulle cause del conflitto centenario che
lacera la terra di Palestina.
Un errore del genere rischia di essere fatale per gli obbiettivi che si sono proposti i firmatari
palestinesi e israeliani del documento di Ginevra: riconquistare le rispettive opinioni pubbliche
a una prospettiva di negoziato e di pace.
La collera alimentata dall’espansione delle colonie, dalla costruzione del muro,
dall’accerchiamento dei villaggi o dalle esecuzioni mirate non potranno non provocare, prima o poi, il disprezzo
per tutti e tutte coloro tra i Palestinesi che si ostinino a parlare di pace con gente che non si
oppone a questa politica di repressione - o, per alcuni, la sostiene. Ci sarà inoltre,
inevitabilmente, una ripresa degli attentati. Di fronte a questi attentati, l’opinione pubblica israeliana
continuerà a sostenere la politica del "solo-repressione" di Sharon, e a prendersi gioco di chi redige
piani di pace con dei bombaroli. Insomma, se non verranno attaccate le radici della violenza
attuale, cioè l’occupazione, la colonizzazione e la repressione, si tornerà inevitabilmente al punto di
partenza.
Michel Warshawski