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Resistere all’intossicazione sul "terrorismo internazionale"
Publie le lunedì 17 novembre 2003 par Open-PublishingUna campagna di intossicazione senza precedenti
... ma con risultati mediocri
Da quando è arrivata la prima notizia dei morti italiani a Nasiriya, la stampa "indipendente" (per
non parlare delle sette TV di regime) è stata arruolata e ha cominciato a martellare contro gli
sciagurati e vili che ora vorrebbero abbandonare la missione umanitaria di cui gli iracheni hanno
tanto bisogno. Berlusconi ovviamente, prendendosi al Senato la diretta televisiva insieme a Martino
e oscurando i brevissimi interventi degli altri, ha tuonato: "tacciano le polemiche". Ciampi gli
ha dato, più spudoratamente che in altre occasioni, un appoggio decisivo per impastoiare buona
parte del centrosinistra che continua a guardare a lui come un arbitro. E molti interventi del
centrosinistra hanno effettivamente evitato di rompere l’unanimità del silenzio sulle cause della
tragedia.
Indubbiamente una parte della popolazione, quella che fino a pochi mesi fa non sapeva neppure che
l’Iraq esistesse, né dove stesse, e che credeva magari come il 70% degli statunitensi che fosse il
rifugio di Bin Laden, quella che aveva creduto alla menzogna che i nostri soldati fossero andati
in una missione di scorta ai medici, può essere stata disorientata al punto di non domandarsi come
e perché dei ragazzi del tutto impreparati e privi di conoscenze specifiche sul paese, la sua
civiltà, la sua complessa stratificazione etnica e religiosa, ecc., per non parlare della lingua, sono
stati mandati a morire.
Come si creano gli eroi
Può aver abboccato alla grottesca esaltazione come "eroi" di quelle che sono state invece quasi
tutte vittime inconsapevoli. È un abitudine di tutti i giornalisti "arruolati" costruire leggende di
questo tipo. Pensiamo al caso di Jessica, l’eroina statunitense che ha finito per dover scrivere
un libro per spiegare che: 1) non ha mai sparato un colpo; 2) è stata ferita in un incidente
stradale; 3) non è stata torturata o stuprata, ma è stata curata amorosamente dai medici iracheni; 4)
non c’era nessun bisogno della messa in scena sulla sua liberazione con una spettacolare operazione
militare ripresa da teleoperatori "arruolati", perché da tre giorni non c’era nessun soldato
iracheno nell’ospedale o nelle vicinanze, ed erano stati proprio i medici a invitare le truppe
statunitensi a riprendersela, visto che erano senza medicinali e attrezzature, e che quando avevano
provato a portarla direttamente al comando statunitense la loro ambulanza era stata colpita (sparare
sulla Croce rossa è uno sport diffuso negli eserciti senza avversari, figuriamoci poi se l’ambulanza
porta una Mezzaluna rossa...).
Eppure anche nelle storie più esaltanti, magari affidate a un’intervista a qualche parente
compiacente disposto a nascondere la verità - cioè che la maggior parte di quei ragazzi si erano
arruolati non per amore del servizio militare o poliziesco, ma semplicemente perché era l’unico modo di
avere uno stipendio decente - traspare a volte la realtà della loro tremenda impreparazione.
Viene fuori ad esempio che il luogotenente dei carabinieri Enzo Fregosi, morto a Nasiriya, aveva
tentato di capire qualcosa sul paese in cui stava per andare chiedendo al capo della comunità
ebraica di Livorno alcune parole arabe per socializzare con gli iracheni. Come mai proprio lì? Perché
apparteneva a quella comunità, o perché non aveva piena consapevolezza della differenza tra ebrei
europei e arabi? Non lo sappiamo, ma quello che è certo è che nessuno dei superiori gli aveva
fornito un manualetto di conversazione e una grammatica araba, una breve storia dell’Iraq, una
spiegazione sommaria delle caratteristiche etniche e delle tradizioni culturali della popolazione
irachena. E Fregosi non era un ragazzo appena arruolato, era da trent’anni nei carabinieri, era un
esperto, ma di altre cose... Qualche altro sarà andato in parrocchia, a fare le stesse domande. Altro che
eroi, per i nostri governanti quei carabinieri e quei soldati erano solo carne da macello, o
comparse per una sceneggiata sul "nuovo grande ruolo" dell’Italia nel mondo.
Ora si annuncia che morti e feriti saranno sostituiti ricorrendo ai "professionisti" del Tuscania,
paracadutisti già sperimentati in Somalia e in altre occasioni e in realtà già presenti in altre
zone dell’Iraq. Un’ammissione, quindi, che i primi inviati non erano veri "professionisti": che
esperienza poteva avere come "esperto di intelligence" il maresciallo Filippo Merlino, comandante
della stazione dei carabinieri nella tranquilla Viadana in provincia di Mantova?
Il grosso del distaccamento chiamato "Antica Babilonia" (fa piacere che almeno qualcuno degli
organizzatori sapeva che da quelle parti un tempo era esistita una città con quel nome...) "era
composto di sottufficiali provenienti dai ranghi della «Territoriale»: carabinieri che fanno servizio
nelle stazioni sparse in tutta Italia e che si offrivano volontari per tre-sei mesi. Tutti venivano
«qualificati» per circa un mese nei comandi di Gorizia e Bolzano, dove imparavano a usare armi «da
guerra» come i fucili mitragliatori Sc-70 e le tattiche dei pattugliamenti". Questo scrive il
"Corriere della Sera" il 14 novembre per tranquillizzare i lettori sul futuro del contingente, che ora
sarà sicuro. Ancora una volta, si ammette che la preparazione ricevuta era chiaramente
insufficiente.
Ma come potevano riceverne una migliore se la stessa massima autorità dell’Arma, il generale
Bellini, ha dichiarato candidamente che "i terroristi venivano senz’altro da fuori: così ci hanno
raccontato i testimoni che li hanno visti in faccia". (CdS, 14/11/03) Ma chi sarebbero questi testimoni
in grado di riconoscere, alle prime luci dell’alba, se uno che sta lanciandosi con un carico di
esplosivo sulla caserma è di Nasiriya o di un’altra città? Comunque il generale Bellini è sicuro:
"Io penso ai feddayn di Saddam Hussein collegati ad Al Qaeda".
Così risulta che la nostra "intelligence" è così efficace, che lo stesso generale Bellini ha
finito per credere alla favole raccontate dai propagandisti di Bush, Blair e Berlusconi sui legami tra
Saddam e Bin Laden! (P.S. Naturalmente qualche giorno dopo vengono fuori le rivendicazioni di Bin
Laden, non costa nulla attribuirsi tutto, sempre che sia stato lui a scrivere...). Le stesse cose
Bellini le ha ripetute a "l’Unità" del 15, citando come fonte il ministro Martino, e sostenendo
assurdamente che le misure di sicurezza erano adeguate. Eppure è costretto a smentire la notizia
riportata da tutti i giornali sugli avvertimenti di vari capi locali, uno dei quali assicura di avere
inviato addirittura due fax descrivendo perfino il camion che sarebbe stato usato. Il comando
smentisce. Viene da domandarsi in che lingua erano stati inviati i fax: in arabo o in inglese? Forse
per i nostri esperti di intelligence reclutati nelle stazioni dei carabinieri di provincia era
troppo complicato decifrarli in entrambi i casi... Va detto che domenica 16 il corrispondente de
l’Unità Gabriel Bertinetto ha potuto verificare che le dichiarazioni autoassolutorie degli ufficiali
erano false, perché ha trovato i verbali della riunione in cui erano stati avvertiti. Che è
successo? Non hanno capito? Gli interpreti li hanno informati male? In ogni caso, ci voleva davvero molto
a capire il cambiamento di clima?
Generali incompetenti e sottufficiali coraggiosi
Che ci sia stata una grave impreparazione è solo un’inaccettabile insinuazione dovuta a
prevenzione nei confronti della "Benemerita"? No. Il maresciallo Ernesto Pallotta, editorialista del
"Giornale dei carabinieri", ha scritto a chiare lettere che non si trattava di una "Missione di pace" ma
della partecipazione alla guerra di Bush, a cui i carabinieri non erano preparati e a cui sono
andati credendo di dover fare altro: "L’Iraq non deve essere il nostro Vietnam. Il governo sia
chiaro, dica ai carabinieri che lì c’è una guerra, e poi vedremo se tanti saranno disposti ad andarci".
Per questo Pallotta è stato messo sotto inchiesta dai comandi dell’Arma, ma non si è fatto
intimidire.
Mentre i generali continuano a dire che la situazione è ottima ed eccellente, i militari di truppa
li smentiscono. Il caporale Claudio Di Paola, ad esempio, ha dichiarato all’inviato de "l’Unità":
"Da una settimana notavamo come il rapporto con la popolazione stesse peggiorando. Quando andavi
in giro per pattugliamento, a volte ti accoglievano con il sorriso, ma appena eri passato ti
tiravano i sassi. Anche noi siamo una forza della coalizione, e non so fino a che punto qualcuno
potrebbe fare distinzione tra i militari italiani e gli americani".
Perché "da una settimana"? Perché negli ultimi tempi, di fronte all’evidente fallimento della loro
politica, i comandi statunitensi avevano mutato tattica. Il "Corriere della sera" lo spiegava a
chiare lettere in un articolo da Baghdad di Lorenzo Cremonesi (fonte insospettabile perché da anni
corrispondente in Israele e apertamente sionista) esattamente nel numero del 12 novembre, il giorno
stesso in cui è avvenuto l’attentato. "Il comando americano alza il tiro". Nell’articolo si
riferiva della precipitosa partenza di Bremer dall’Iraq per conferire con Bush, e degli annunci sia del
comandante delle truppe di occupazione Ricardo Sanchez, sia del capo di stato maggiore Dick Myers
sulla prossima ripresa dei bombardamenti: ma Cremonesi informava che da diversi giorni gli F16
avevano bombardato a tappeto un quartiere residenziale presso il Tigri, dove successivamente "le
pattuglie hanno distrutto a colpi di lanciagranate alcune abitazioni abbandonate ed effettuato una
lunga serie di perquisizioni". Si tratta di "una dimostrazione di forza" che punta a esercitare
"forti pressioni psicologiche su quei settori della popolazione civile che sostengono il terrorismo".
Ma come, i terroristi non sarebbero tutti "stranieri" e odiati dalla popolazione, come ci assicura
il generale Bellini, e come lo stesso "Corriere della sera" ha ripetuto in base alle veline del
governo nei giorni successivi agli attentati?
Nello stesso numero del quotidiano milanese una corrispondenza da Washington di Marco Nese
descriveva il nervosismo negli ambienti militari di Washington in palese difficoltà anche in Afghanistan,
e che mentre reagivano con "grande irritazione" agli atteggiamenti di francesi e tedeschi,
elogiavano l’Italia e le chiedevano "altri sacrifici". Altro che missioni di pace!
I precedenti di Congo e Somalia
Molti giornali, per riempire le 15 o 20 pagine da dedicare all’argomento, hanno ripercorso alcune
vicende di altre imprese all’estero conclusesi tragicamente, a partire da quella del Congo del
1961. Ma con molte reticenze: al di là della discussione se i 13 paracadutisti e aviatori italiani
uccisi (di cui avevamo parlato subito dopo l’attentato di Nasiriya) fossero andati a Kindu in
missione per portare armi al contingente malese, o per comprare avorio di contrabbando senza rendersi
conto del pericolo, come si disse allora, è certo che pagarono perché facevano parte del contingente
dell’ONU che era stato chiamato dallo stesso Lumumba di fronte all’aggressione belga e alla
secessione katanghese, ma che non lo protesse e lo lasciò nella mani dei suoi assassini. Se l’ONU, come
ha fatto in tutta la sua storia, dà una spruzzatina di legalità all’aggressione e assume il
compito di gestire un paese in rivolta, chi fa parte dei suoi contingenti può essere non infondatamente
considerato complice degli invasori. Ma in questo caso in Iraq ci stiamo indipendentemente da ogni
benedizione dell’ONU, stiamo lì in quanto parte della "coalizione", come ha detto spudoratamente
Berlusconi e poi di nuovo Bush ringraziando Ciampi. E il risentimento rimarrebbe perfino se, come è
pochissimo probabile, gli Stati Uniti decidessero di ritirarsi dall’Iraq affidando il compito di
domarlo ai paesi vassalli.
Anche sulla Somalia, ricordata negli stessi articoli "storici" d’occasione, Paolo Conti sul
"Corriere della sera" ha la memoria molto corta. Lasciamo pure perdere stupri e torture (documentati
tuttavia dagli stessi parà in foto e video ricordo finiti poi sul settimanale "Panorama" diretto
allora da Giuliano Ferrara, che li acquistò per fare uno scoop e anche per cinismo), ma è incredibile
che oggi si presenti una versione del tutto falsa degli scontri al crocevia "Pasta" di Mogadiscio
del 2 luglio 1993, affidata a uno dei sopravvissuti, il capitano Gianfranco Paglia, che rimase
ferito in quell’occasione. Egli sostiene spudoratamente: "noi italiani dimostrammo grande freddezza.
Rinunciammo a rispondere al fuoco. Ed evitammo una carneficina, impossibile sparare su una folla
così eterogenea. Magari pagammo quella decisione con più vittime, ma con la certezza di avere la
coscienza tranquilla di fronte a tutti". Completamente falso: basta consultare i giornali del giorno
successivo, e risulta che le vittime somale furono 67 contro 3 (tre) italiani. Su vari giornali
alcuni dei feriti italiani dichiaravano esaltati "abbiamo sparato su ogni cosa nera che si muoveva".
Ora invece sono diventati tutti San Francesco!
Ma tutta questa retorica patriottarda non ha fatto veramente breccia. Certo la maggior parte degli
italiani si sono commossi vedendo le lacrime dei familiari delle vittime, ma non sono molti quelli
che hanno abboccato all’appello di Ostellino che sul Corriere chiedeva di mettere il tricolore
alle finestre, magari a fianco della bandiera della pace.
Una squallida mentitrice, amica dell’imperialismo: Emma Bonino
Ancor meno successo ha avuto l’appello della Bonino, che in vista delle europee non perde
occasione per mettersi in vista, e che ha proposto ridicolmente ai pacifisti di scendere in piazza con
cartelli "Saddam vattene, viva la democrazia". Ha anche raccomandato a Bush di non accelerare il
passaggio del potere agli iracheni, perché potrebbe essere "l’alibi per il ritiro dei militari in
tempi brevi". Casomai si dovrebbe "chiedere l’esilio forzato di Saddam e la sua resa". Che strano che
Bush non ci avesse pensato prima di lei e Pannella...
Ma a chiarire l’orientamento spudoratamente filoimperialista dei radicali, la Bonino dichiara poi
di temere "una replica dell’accordo di Parigi del 1973 per il Vietnam". La sua spiegazione è
intessuta di falsità: grazie a quell’accordo invece della pace ci sarebbe stata "la conquista di
Saigon" e di conseguenza "la guerra civile in Vietnam". Ma cosa c’era stato invece tra il 1954 e il 1975
in quello sfortunato paese? Non era una guerra civile, con in più una presenza di mezzo milione di
militari statunitensi che hanno ucciso milioni di persone e distrutto l’ambiente?
La Bonino non è solo in malafede: è sicura dell’ignoranza degli italiani, sicché aggiunge tra le
conseguenze di quell’accordo che "subito dopo Pol Pot trasformò la Cambogia per vent’anni nel regno
del terrore". Un cumulo di menzogne spudorate: il pressoché sconosciuto Pol Pot è emerso dallo
sfacelo della Cambogia massacrata dai bombardamenti USA (che avevano ucciso un terzo della
popolazione) solo nel 1975, e già nel 1978 era stato rovesciato dai vietnamiti accorsi in difesa della loro
minoranza e in genere della popolazione del vicino paese con cui avevano avuto per tanto tempo una
storia comune. Ma Pol Pot è stato salvato da una bizzarra coalizione tra Cina (che attaccò il
Vietnam, senza riuscire a piegarlo, ma infliggendogli nuovi lutti e distruzioni) e gli Stati Uniti.
Pol Pot era responsabile di crimini immensi, ma dato che era protetto dalla Cina diventata amica
degli USA, mentre i vietnamiti erano legati all’esecrata URSS, Stati Uniti e paesi imperialisti
(compresa l’Italia) hanno continuato per oltre dieci anni a riconoscerne all’ONU il governo in esilio
rifiutando di cedere il seggio al vero governo cambogiano. Gli "Khmer rossi" hanno ricevuto aiuti
militari e finanziamenti ancora per molti anni. Un crimine contro l’umanità che ricade su tutti i
paesi imperialisti, e soprattutto su quello che sta tanto a cuore alla Bonino e a Pannella: gli
Stati Uniti.
Dilaga il terrorismo: come fare a non dire che l’avevamo detto?
Intanto appena pochi giorni dopo l’attacco alla caserma di Nasiriya, due bombe hanno provocato
decine di morti in due sinagoghe di Istanbul. Il governo turco e la maggior parte dei mass media
hanno parlato di stranieri, assoldati da al Qaeda. Come da copione: anche Putin etichetta i ceceni
come esponenti di al Qaeda. È semplice, prima di tutto si esclude che si debba cercare nelle pieghe
della propria società, e poi si porta acqua al mulino della cospirazione universale di un nemico
unico e potentissimo. Condividiamo invece l’analisi di Tariq Ali in un’intervista al "manifesto" del
16 novembre sulle probabili origini turche di questo orribile atto, per ragioni connesse agli
equilibri interni con gli stessi islamici moderati arrivati al potere. Va segnalato anche
l’atteggiamento di Israele: in altri casi avrebbe preso a pretesto gli attentati per bombardamenti e
ritorsioni varie, ma la Turchia è una preziosa alleata e una buona cliente per l’acquisto e la manutenzione
di armi e si fa finta di niente...
In realtà se si sommano questi attacchi a quelli sempre più frequenti alle truppe statunitensi in
Iraq e Afghanistan (alcuni dei quali peraltro hanno caratteristiche non terroristiche, ma sempre
più evidentemente militari o almeno di guerriglia), emerge che lo scopo dichiarato della "guerra
infinita" avviata dopo l’11 settembre non solo non è stato raggiunto, ma ha ottenuto esattamente
l’effetto opposto. Non c’è una sola mano che manovra il cosiddetto "terrorismo internazionale", ma la
strada delle azioni terroristiche viene imboccata sempre più spesso in un gran numero di paesi da
soggetti diversi. Per mettere un’autobomba, inoltre, non occorre avere migliaia di militanti, ne
bastano cinque o sei decisi a morire o comunque a rischiare la vita. L’amplificazione del mito di
al Qaeda e di Bin Laden da parte dei mass media può fornire un riferimento, un modello, anche senza
nessun legame materiale, come ha notato lucidamente l’ex ambasciatore Sergio Romano in varie
occasioni e soprattutto in un’intervista a "Liberazione" del 16 novembre.
Naturalmente Berlusconi dice che dobbiamo tacere, ma è impossibile farlo. La consapevolezza di un
possibile strascico di ritorsioni disperate si è aggiunta fin dall’inizio alle altre motivazioni
di chi si opponeva alla guerra o si schierava contro la feroce oppressione sionista. L’aggressione
all’Iraq, l’inasprimento della repressione nei Territori rioccupati, non potevano non generare
anche risposte disperate e irrazionali, e non solo nel mondo arabo islamico.
P.S Una nota positiva in questo orrore: hanno reagito invece lucidamente agli attentati di
Istanbul tanto il presidente delle Comunità ebraiche italiane, Amos Luzzatto, quanto Hamza Piccardo,
segretario dell’Unione delle comunità islamiche in Italia. Entrambi hanno dichiarato di non credere a
una "centrale unica del terrore", e hanno cercato di identificare i diversi moventi di ogni
azione. Anche il presidente dell’Unione, Mohammed Nour Dachan, ha subito telefonato a Luzzatto per
esprimere la solidarietà e lo sdegno per azioni che colpiscono luoghi di culto che tutti i credenti
rispettano ("non fa differenza che si tratti di moschea, sinagoga o chiesa" ha aggiunto Piccardo,
segnalando qualche esperienza positiva di giovani musulmani e giovani ebrei in Italia). Un piccolo
segno di speranza, in giorni dominati dal fanatismo e dallo sciovinismo che vuole impedire di
riflettere sul vicolo cieco in cui i nostri governanti hanno portato il mondo. Un segno che si somma al
dato importantissimo (occultato in Italia dalle TV di regime) del mezzo milione di partecipanti
alla più grande marcia della pace che si sia mai vista a Parigi. La barbarie della violenza non
genera solo risposte speculari, ma anche consapevolezza e crescita dei movimenti. (a.m. 17/11/2003)
La redazione di Bandiera Rossa News