Home > Riflessioni sulla lotta degli autoferrotranvieri
Riflessioni sulla lotta degli autoferrotranvieri
Publie le lunedì 12 gennaio 2004 par Open-Publishing“…una volta c’era una parola di cui sono orgogliosa e che fa parte della mia infanzia:
proletariato. Oggi purtroppo non la usa più nessuno….E’ il proletariato che ha sempre alimentato la nazione.
Ci dovrebbe essere più rispetto. Se questa classe sociale si ferma la nazione cade. Oggi, invece,
tutti se la sono presa con i tranvieri, ma si sono accorti di loro solo quando si sono fermati.”
Carla Fracci, intervista a “La Repubblica” del 5 dicembre 2003
I lavoratori del settore sono quasi 120.000, le imprese circa 200 e fra il 2002 ed il 2003 vi sono
state 212 ore di sciopero per un contratto che vede i sindacati istituzionali richiedere 106 euro
lordi d’aumento che dovrebbero recuperare il differenziale fra inflazione programmata ed
inflazione reale per il biennio 2000 - 2001 e l’inflazione programmata per il 2002 – 2003.
Siamo, insomma, di fronte ad una piattaforma tutt’altro che esaltante e radicale. Il sindacalismo
di base, che pure nel settore è presente, ha, ovviamente, una piattaforma diversa ma lo stesso
sciopero del 1 dicembre non si è sviluppato su questa piattaforma.
Eppure l’Asstra, l’associazione che rappresenta le aziende del settore non ha potuto chiudere il
contratto per il banale motivo che il governo nazionale non ha garantito le risorse necessarie a
farlo e che, ad oggi, non ha modificato il suo atteggiamento di fondo e la recente concessione di 33
milioni di euro al settore (20 milioni per innovazione e 13 per gli aumenti) è assolutamente
inadeguata visto che la chiusura del contratto comporta una spesa di circa 500 milioni di euro.
Da un punto di vista tecnico, ed è evidente che non si tratta essenzialmente di un problema
tecnico, siamo di fronte ad una sovrapposizione di ruoli: le imprese e la loro associazione, le regioni
ed i comuni, il governo centrale. Le imprese contrattano ma non hanno risorse, il governo non
contratta ma decide delle risorse, gli enti locali, in particolare in Lombardia, cercano di giocare un
ruolo maggiore rispetto al passato ma devono fare i conti con i limiti delle risorse a loro
disposizione e del loro potere.
In realtà vi sono diverse contrattazioni: quella fra Asstra e governo, quella fra enti locali e
governo, quella fra sindacati ed Asstra e, dopo lo sciopero del 1 dicembre, quella fra lavoratori e
sindacati.
La politica governativa sembra di facile comprensione: taglio delle risorse agli enti locali e
alle aziende che sono lasciati gestire le tensioni e, nello stesso tempo, preparazione, di fatto, del
passaggio alla gestione aziendale regionale ed aziendale della materia.
Il fatto è che siamo in una situazione di guado, non funziona il vecchio modello di contrattazione
centralizzata e non funziona nemmeno un eventuale nuovo modello di contrattazione regionale ed
aziendale ed il prezzo della situazione lo pagano, e non è una novità, i lavoratori che non si vedono
riconosciuto nemmeno quanto è previsto dalla concertazione.
Nei giorni che hanno immediatamente seguito lo sciopero è circolata una lettura dei fatti
suggestiva anche se, a mio avviso, parziale. Sembra che sia stata la stessa Asstra a prospettare ai
sindacati istituzionali e, in particolare, a CISL e UIL l’opportunità di “scaldare” la situazione al
fine di ottenere risorse aggiuntive dal governo (i tre centesimi di accisa sulla benzina) per
finanziare il contratto. Ammesso che sia vero è altrettanto vero che non è credibile che i quadri CISL e
UIL siano stati in grado di manovrare i lavoratori e di “indurli” ad uno sciopero selvaggio, al
massimo si può pensare che un’attitudine diversa rispetto a quella usuale di settori dell’apparato
sindacale abbia lasciato spazio all’iniziativa autonoma degli autoferrotranvieri milanesi.
Non è
una novità che il movimento di classe possa trarre vantaggio dalle contraddizioni interne al fronte
avverso.
D’altro canto, la stessa Regione Lombardia ha proposto di chiudere il contratto su base regionale
e di garantire risorse aggiuntive e, per la verità, CISL e UIL si sono dimostrate disponibili ad
un’operazione del genere.
Nel corso dei giorni passati, è ripartito, su un fronte solo parzialmente diverso, il dibattito
sui meccanismi di repressione degli scioperi selvaggi. È stato, infatti, evidente a tutti un fatto
che, sul piano razionale, era noto da anni: la legge 146/90, mi si consenta la citazione maoista, è
una tigre di carta. È certamente efficace come blocco rispetto a scioperi di minoranza, taglia le
gambe ai sindacati non istituzionali che sono sottoposti a severe sanzioni se indicono scioperi
irregolari e cioè gli unici efficaci ma non funziona bene o non funziona affatto se la situazione si
radicalizza e si danno scioperi di massa non indetti formalmente da nessun sindacato.
Certo, la Procura di Milano sta indagando e si minacciano sanzioni severe che arrivano sino al
carcere ma sappiamo tutti che non è facile fare operazioni del genere. Basta pensare, a questo
proposito, allo sciopero degli autoferrotranvieri di Trieste di un paio di anni addietro che sono stati
assolti in tribunale ed alla malattia di massa di un anno addietro dei lavoratori dell’Alitalia
che lasciato disarmato l’avversario dal punto di vista legale. Detto ciò, non va sottovalutato,
anzi, il rischio che la legislazione sul diritto di sciopero subisca, a breve, un secco peggioramento.
È anche vero che lo sciopero del 1 dicembre segna un salto importante. Trieste, infatti, è certo
una graziosa città di frontiera ma lo sciopero selvaggio che l’ha coinvolta non ha colpito
l’opinione pubblica nazionale come quello milanese e la malattia di massa degli aeroportuali romani, e non
vi alcuna presa di distanza moralistica in questa valutazione, ha una qualità politica
straordinariamente inferiore rispetto allo sciopero.
Ancora una volta, il movimento reale della lotta di classe, con tutti i suoi limiti e
contraddizioni, pone alle organizzazioni formali del movimento dei lavoratori problemi importanti e mette in
crisi le strategie costruite negli anni.
In particolare, il sindacalismo alternativo dimostra una correttezza di fondo nelle posizioni di
dura critica alla legislazione antisciopero ma una capacità di iniziativa, a mio avviso,
insufficiente.
Va, infatti, rilevato che lo schema sul quale si è strutturato e cioè la presa di distanza dalle
piattaforme di CGIL-CISL-UIL è necessario ma non sufficiente, non basta individuare obiettivo
corretti sotto il profilo sindacale per battere il sindacato istituzionale e, soprattutto, per battere
il padrone.
È necessario che le proposte del sindacalismo di base siano immediatamente connesse a forme di
lotta e di iniziativa adeguate alle piattaforme stesse e che vi sia un intreccio efficace fra
indipendenza progettuale, capacità di colpire l’avversario, pratica assembleare e che questo intreccio
sia tale da determinare un’identità forte e chiara.
Per quanto ci riguarda, si tratta di sviluppare tre livelli di iniziativa:
· un’informazione la più diffusa possibile sulle ragioni e la necessità di scioperi come
quello del 1 dicembre;
· lo sviluppo di strumenti utili alla solidarietà ai lavoratori colpiti dalla repressione
in occasione di scioperi che spezzano la normativa antisciopero;
· una campagna politica su alcuni obiettivi oggi centrali come la lotta per forti aumenti
retributivi e contro la precarizzazione dei lavoratori.
Non sappiamo, in questo momento, se i sindacati istituzionali manterranno lo sciopero del 15
dicembre o se troveranno una mediazione e quale mediazione. L’assieme dei sindacati di base ha indetto
uno sciopero per lo stesso giorno e, a meno di uno sbracamento imprevedibile da parte del governo,
lo manterrà.
È anche compito nostro sostenere lo sciopero e operare perché tocchi questioni importanti come
quella della precarizzazione dei lavoratori dei trasporti e delle esternalizzazioni. Non
dimentichiamo che il successo dello sciopero milanese deriva anche dal fatto che un elevato numero di
lavoratori non è assunto con contratti normali ma vive una situazione di attesa di un’improbabile
assunzione, di salari minimi, di mancanza di diritti.
Si tratta, quindi, di legare l’azione per forti aumenti retributivi a quella per l’unità dei
lavoratori.
Un compito non facile ma da assolvere al meglio.