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Di Salvatore Cannavò
Del movimento antiglobalizzazione si discute moltissimo nei picchi di
mobilitazione, quasi nulla nei momenti di stanca. Dato continuamente per
morto o in crisi, il movimento ha sempre bisogno di esibire il proprio
³certificato di esistenza in vita². Specialmente dopo l¹esito della guerra
in Iraq, una guerra osteggiata in modo massiccio ma purtroppo non fermata, i
giudizi sono stati drastici, anche a sinistra. La vittoria degli Usa da un
lato ha alimentato l¹idea di spostare il conflitto sociale su un terreno più
³duro² fuori dalle ³rituali² manifestazioni di massa, dall¹altra ha spinto
la politica degli apparati e dei palazzi a ricandidarsi come unico luogo in
cui progettare alternative possibili.
Nel frattempo il movimento è andato avanti, con le sue forme spurie ma con i
suoi contenuti. Sull¹Iraq ha registrato lo scredito progressivo di Bush e
Blair e la crescita di una coscienza civile contro la guerra. E¹ andato a
Cancùn e ha ottenuto una vittoria tutt¹altro che simbolica, forse la sua
prima vera vittoria politica. E¹ stato poi a Roma e mai prima d¹ora il tema
della Convenzione europea era stato portato così evidentemente in primo.
L¹esito della Perugia-Assisi fa parte di questo percorso così come il Forum
sociale europeo di Parigi. Insomma il movimento ha proseguito il proprio
cammino anche se tra limiti e difficoltà che sarebbe sbagliato sottacere e
non affrontare apertamente.
Riflettere sui limiti, e sulla forza del movimento, dovrebbe essere una
priorità in una fase come questa contrassegnata da un certo grado di
incertezza. I due corni andrebbero tenuti insieme provando a ragionare su
come dare continuità al lavoro fatto, su come rinnovare quello che non va e,
soprattutto, su come non finire stritolati da una nuova fase politica,
quella che vede anche il centrosinistra e addirittura la Cisl di Pezzotta,
praticare nuovamente il terreno dell¹opposizione. E¹ vero che una certa
³rendita² di posizione è finita e che dunque il movimento ha l¹onere di
dimostrare la propria utilità e la propria efficacia.
1. Elaborare di più.
Il fallimento del Wto pone con maggiore evidenza la necessità di cimentarsi
con le alternative in forme più precise di quanto fatto finora nei forum
sociali o nei controvertici tematici. All¹interno di una crisi
internazionale la necessità di fornire risposte, di indicare soluzioni
diventa un passaggio cruciale se si vuole consolidare un consenso di massa e
divenire un soggetto efficace. Questo passaggio è tutto davanti a noi e si
intreccia indissolubilmente con la costruzione di una sinistra alternativa
su scala mondiale. Davvero la contestazione, pur necessaria, non basta più.
2. L¹efficacia ³costituente²
Alle proposte servono delle vittorie parziali o emblematiche che affrontino
il terreno della politica quotidiana, la quotidianità della vita,
esemplificando un progetto più ambizioso. La vittoria di Cancùn è importante
ma va riportata sul piano locale individuando obiettivi intermedi su cui
misurare la propria iniziativa. Il movimento ha bisogno di radicarsi e di
costruire efficacia sociale, quella stessa che i partiti, tutti, non hanno
più e che il sindacato stenta a conservare. Del resto è questa la sua
missione e la sua vocazione. Il movimento è costituente, nel senso che ha
alluso, e continua ad alludere, alla necessità di nuove ³istituzioni: nuovi
sindacati, nuovi partiti, nuove forme associative. Un percorso che abbiamo
chiamato in passato ³rifondazione della politica² e che ha bisogno di tempo
e che può essere messo in pericolo da strozzature, da torsioni politiciste o
istituzionali. Pensare di rimediare all¹efficacia traslando tutto sul piano
delle mediazioni politiche e di apparato è una scorciatoia impossibile. E
l¹idea che Fassino e D¹Alema quelli che marciano alla Perugia-Assisi e poi
giudicano legittima l¹occupazione militare dell¹Iraq se coperta dall¹Onu
possano essere interlocutori del movimento è un¹illusione.
3. Autonomia, unità, radicalità
Resta quindi il problema di come rilanciare il movimento, preservandone
unità e autonomia ma superando la sua forma attuale quella degli accordi
tra gruppi e associazioni in cui manca partecipazione dal basso, chiave di
volta per un movimento degno di questo nome. Più chiaramente: il Gruppo di
continuità è stato fondamentale a garantirci, appunto, la continuità tra una
scadenza e l¹altra; pensare oggi di sbarazzarsene in nome di una presunta
palingenesi sarebbe una scommessa azzardata. Allo stesso tempo rinunciare a
rinnovare le forme con cui il movimento tenta e, davvero, tenta solamente
di rappresentarsi sarebbe sbagliato. In realtà a noi servirebbero dieci,
cento, mille gruppi di coordinamento sui vari temi, nei territori, nei vari
passaggi. Servirebbe un¹attività più serrata e decentrata e soprattutto più
marcata sul piano sociale. Anche perché un Gruppo di continuità che si
compone soprattutto di appartenenze ³politiche² rischia di risentire
eccessivamente di una nuova fase in cui la politica tradizionale, quella che
alcuni definiscono, a ragione, la ³vecchia politica², pretende di assumere
una centralità assoluta e rischia di trascinare sul suo esclusivo livello,
quello che il movimento ha sedimentato in questi anni.
Autonomia, unità e radicalità sono tre capisaldi cui non si può rinunciare.
In particolare l¹autonomia che, evidentemente, non è l¹autonomia di un
presunto ³sociale² che si contrappone al ³politico² e che poi si ritaglia il
ruolo di lobby o di contestazione ribelle. L¹autonomia politica è la
capacità di continuare ad avanzare proposte, di compiere fatti politici e di
proseguire, come abbiamo fatto finora, a scuotere la politica, tutta. In
realtà, l¹autonomia di cui abbiamo bisogno ora è la capacità di iniziativa,
unitaria e radicale come sempre, e adeguata alla fase. Un movimento di
massa, un movimento plurale e variegato, non dovrebbe avere il compito di
mettersi a formulare un programma di governo: piuttosto deve imporre certi
contenuti e certe priorità e spostare il senso complessivo della società,
guadagnarsi credibilità, rafforzare strumento di partecipazione diretta, far
vivere il conflitto, guadagnare spazi. Sono queste le prerogative che ci
hanno permesso di superare il dopo Genova, di organizzare il Forum di
Firenze, di reggere alla manovra di Cofferati e di arrivare al 15 febbraio.
Il movimento ha avuto il pregio di non essere mai autorefenziale immaginando
l¹unità più ampia quando questa sembrava impossibile: si pensi alla Fiom a
Genova, alla Cisl in piazza il 15 febbraio o alla capacità di dialogo con la
Ces il 4 ottobre.
Serve quindi un nuovo patto che però, per non ridursi a una logica di
vertice ha bisogno di sperimentare di più sul piano delle vertenze sociali e
della partecipazione diffusa, soprattutto in relazione alle dinamiche del
mondo del lavoro.
4. Bisogna riprendere a ragionare di campagne.
Il movimento resta legato all¹evento, al Forum sociale, alla manifestazione;
fatica invece a cimentarsi con il movimento quotidiano, il conflitto, e a
far diventare questo un evento permanente. Alcune esperienze sono state
fatte: si pensi alla vertenza di Action a Roma che ha sintetizzato molto
bene cosa vuol dire spendersi nella pratica quotidiana. Il lavoro contro la
precarietà sta cercando di mettere insieme qualcosa di analogo; i tavoli
costituiti oltre un anno fa cercano di servire a questo, anche se si va da
lavori più sperimentati e forti il tavolo migranti ad altri solo
abbozzati. E poi comitati, coordinamenti, social forum che lavorano sul
territorio ma spesso non si parlano, non comunicano. C¹è un sacco di lavoro
di ³RETE² da fare, di connessioni da costruire con il quale realizzare
partecipazione. Un¹analisi più accurata della parabola dei social forum
che fortunatamente qualcuno cerca ancora di indagare, come l¹assemblea di
Bologna del 19 dovrebbe partire da queste riflessioni e da lì cercare di
risalire ai limiti e alle scelte che andrebbero fatte. Forse, dopo il Forum
di Saint Denis, un¹assemblea nazionale che riprecisi il senso del nostro
agire, potrebbe essere utile.
5. Alcune proposte
a) Il referendum sull¹articolo 18 è stato troppo rapidamente accantonato,
nonostante quasi undici milioni di voti. Lo shock della sconfitta ha fatto
passare in secondo piano un¹adesione popolare mai registrata prima su questi
argomenti. Il tema della precarietà e della condizione del lavoro non può
rimanere in disparte. Disobbedire alla legge 30 è il titolo di una campagna
possibile ma solo il titolo: andrebbero trovate le forme e i contenuti per
rendere questa campagna ampia e partecipata. La battaglia contro la
precarietà è al tempo stesso indicazione di un percorso necessario ma
espressione di una difficoltà obiettiva. E¹ qui che si sperimenta il
raccordo tra vecchio e nuovo movimento operaio ma è ancora qui che si
verifica la disgregazione dei rapporti di forza sociali, la dispersione
delle energie di classe e quindi la fatica di una costruzione fondativa che,
appunto, ha bisogno di tempo. Comunque il 7 novembre, cioè lo sciopero dei
metalmeccanici, è una buona base per ricostruire un tessuto unitario.
b) Sulla guerra non possiamo che interrogarci criticamente: cosa ne è stato
di quel sommovimento che ha prodotto il 15 febbraio? Davvero si riduce alla
pur nobile Perugia-Assisi o addirittura diventa il collante di un possibile
accordo di governo, e non fa nulla permanentemente, cioè sul terreno che la
guerra globale impone? Che diciamo sulla Palestina? e sulla Bolivia? Forse
abbiamo perso l¹occasione di realizzare qualcosa una rete specifica, un
coordinamento, un tavolo qualcosa che continuasse tutti i giorni il lavoro
contro la guerra. Ora ci sono iniziative di questo tipo penso ad Action
for peace o al Network Disarmo e vanno bene. Ma secondo me non abbiamo
saputo cogliere a pieno quel momento per dare maggiore continuità e forza al
movimento. In realtà l¹autocritica sulla guerra parla di qualcosa di più
complesso, del nostro modo di lavorare insieme. Una modalità che, come
dicevo prima, ha sempre seguito l¹evento, la scadenza. E, ad esempio, ha
relativizzato la discussione, l¹approfondimento delle questioni. Sulla
guerra bisognava interrogarsi di più e oggi molti di quei nodi restano sul
tappeto. Mentre scrivo vedo che Francia, Germania e Russia approvano la
mozione Usa all¹Onu: un modo per ricordare che le potenze tentano di
ricomporsi e che quelle che sembravano contrapposizioni frontali erano in
realtà diversi modi di proteggere i propri intreressi. Ma di questo non
abbiamo mai discusso insieme. Così come non abbiamo saputo dare corpo a una
campagna che coinvolgesse almeno una parte di quella moltitudine di donne e
uomini che hanno manifestato, anche con le bandiere ai balconi, la loro
opposizione alla guerra. E non abbiamo sedimentato nulla sul piano
organizzativo, pur nelle forme elastiche e spurie che un movimento esige.
c) Infine sull¹Europa. E¹ questo il moderno terreno della politica, nel
senso più nobile del termine. E il movimento lo ha colto per primo, già al
tempo di Amsterdam, delle euromarce, a Nizza, ecc. Il 4 ottobre eravamo
molti di più di quanto fossimo stati in precedenza e l¹Europa è diventata un
terreno privilegiato di dibattito. In molti, poi, hanno saputo cogliere la
posizione ³altreuropeista² (scusate il neologismo) del movimento che è la
ragione di forza con la quale abbiamo saputo spostare lo stesso dibattito
politico. Ma il 4 ottobre abbiamo risentito di tutti i limiti detti
poc¹anzi: scarsa capacità di impostare una campagna prolungata, assenza di
dibattito, assenza di coinvolgimento capillare. E quindi abbiamo realizzato
una manifestazione importante, buona anche per partecipazione ma ridotta,
non rispetto al passato bensì rispetto alle potenzialità. Quindi, occorre
recuperare. La proposta di ³Stati generali dell¹Altra Europa² ha una forte
valenza e può essere molto utile per affrontare questo nodo. A condizione,
però, che sappiamo articolarla come un processo conflittuale e costituente
in cui i soggetti sociali siano i protagonisti. Gli ³Stati generali²
dovrebbero rappresentare il momento conclusivo di un percorso in cui le
diverse soggettività in movimento dai migranti ai precari, dal movimento
sindacale a quello contro la guerra, dai movimenti ambientalisti, alle
occupazioni di case, ecc. riescano a mettersi in rete sul piano europeo e
a definire, con vertenze più o meno esemplari, con momenti di conflitto
partecipato, tante ³carte dei diritti² che confluiscano in una più ampia
³Carta dell¹altra Europa². Il percorso dovrebbe scaturire dal Forum di Saint
Denis e concludersi in occasione della firma della Costituzione europea
prevista per il prossimo maggio a Roma. In mezzo c¹è un¹agenda di lotta
lunga quanto le iniziative già definite.
6. Il nodo delle pratiche e delle forme di lotta.
Non abbiamo mai condiviso forme di lotta fini a se stesse, ansiose di
legittimarsi sul piano della rappresentazione simbolica e sganciate dai
bisogni dei soggetti in carne e ossa. Quelle stesse forme sono state
appoggiate e su di esse si sono esercitate teorizzazioni di vario tipo,
alcune con l¹illusione che attorno alla pratica potesse costituirsi una
soggettività di movimento. Oggi, a volte dagli stessi soggetti, quelle
pratiche vengono ostentatamente criticate e osteggiate. Ancora una volta si
rischia di non andare al cuore del problema. Non esistono forme di lotta
giuste o sbagliate, ma utili o inutili. La stessa dimensione della
non-violenza se assunta in termini astratti e ideologici può diventare
paralizzante così come la violenza fine a se stessa. Il problema è per cosa
si lotta e chi lotta. Le pratiche, se è vero che non danno vita a una
soggettività, tuttavia non sono disgiunte dai soggetti che le agiscono: gli
occupanti di case, le occupazioni di fabbriche, i picchetti operai possono
anche essere dipinti come violenti e del resto non accade lo stesso ai
contadini boliviani? ma esercitano un diritto inalienabile alla loro
lotta. Che sarà efficace e non minoritaria nella misura in cui sarà ampia e
partecipata, non delegata a poche avanguardie dotate di slancio guerresco e
muscolare. Se una critica va fatta alla rappresentazione del 4 ottobre,
quella della cosiddetta seconda fase, la critica si colloca esattamente qui:
una pratica dovrebbe essere utile e onestamente in quel momento l¹utilità
non siamo riusciti a scorgerla, a differenza del momento precedente quanto
la contestazione delle donne aveva una forza simbolica interressante e non
può essere appannaggio dei ³coraggiosi² mimando una logica guerresca che
dovrebbe esserci estranea. Ma allo stesso tempo, la conseguenza di questa
critica non può essere quella di delegittimare la pratica della
disobbedienza che anzi ha avuto il pregio di porrre in termini nuovi il
dibattito su violenza-nonviolenza, provando a cogliere una sintesi a volte
efficace e utile, altre meno. Se sapremo mettere al servizio questa
discussione di un rinnovato movimento di lotta che valorizzi la centralità
della questione sociale e i temi ce li indica la stessa destra al potere,
vedi Fini e gli immigrati probabilmente riusciremo a trovare una spinta in
avanti senza lasciarci andare a stupide rese dei conti o a sconfessioni che
il movimento non ha mai gradito.