Home > Salvate il soldato Carlos
PATRICIA LOMBROSO NEW YORK
«Ero in Iraq, ho chiesto una licenza di due settimane. E ho
disertato». Intervista a Carlos, immigrato spedito in prima linea con
la promessa di un passaporto. Sei mesi di combattimenti e poi la
scelta di gettare la divisa: «Non voglio più continuare, questa
guerra
è immorale. Macchè liberatori, abbiamo ucciso tanti, troppi iracheni.
Qualcuno impazziva, dopo la missione stava per ore seduto davanti al
muro senza parlare. Qualcuno si è suicidato...»
Il soldato di fanteria Carlos, nicaraguense di 28 anni, vive negli
Stati uniti con la «green card». Fa parte del corpo dell’esercito
americano (39.000 uomini) a cui è stato promesso dal Pentagono di
accelerare la pratica per ottenere la cittadinanza americana in tre
anni, invece dei cinque o più richiesti. Ha una bambina di tre anni.
Dopo otto anni di carriera nell’esercito americano in Texas, per un
salario di 14mila dollari l’anno più benefit che gli consente di
continuare gli studi, si arruola nella Guardia nazionale alla base
militare di Fort Stewart. Sono i primi prescelti dal Pentagono, a
marzo, per essere inviati in Iraq, ignari di combattere in una
guerra.
Le missioni a loro riservate sono le più rischiose e di prima linea -
«palle di cannone», dichiara Carlos. E’ sempre contrario alla guerra
in Iraq. Al suo rientro in Usa ha deciso di disertare l’esercito. Dal
15 ottobre scorso vive in clandestinità, sapendo di essere ricercato
come «absent of duty». Contro di lui c’è un mandato di cattura.
Questa
è la sua prima intervista da quando vive «underground». Carlos non è
il suo vero nome.
La sua decisione di rientrare negli Stati uniti è dovuta al termine
della sua missione in Iraq o altro?
Sono tornato negli Usa dal fronte di prima linea in Iraq perché il
mio
visto di immigrazione stava per scadere. Ho chiesto una licenza di
due
settimane al mio comandante per espletare queste pratiche e dovevo
poi
tornare in prima linea. Ho deciso invece di non voler più tornare in
Iraq. Ora è entrato in vigore l’ordine esecutivo approvato da Bush,
lo
«stop loss»: il 77% degli arruolati volontari non potrà più lasciare
il servizio militare in circostanze come quelle della guerra in Iraq.
Quale è il motivo della sua diserzione?
Non volevo più continuare ad essere partecipe in una guerra che non
condivido.
E’ una decisione presa in conseguenza a quanto ha vissuto durante
questi sei mesi al fronte in Iraq?
No. Sono stato contrario a questa guerra sin dall’inizio, ancor prima
di essere spedito al fronte. Questa è una guerra immorale. Non cerco
di evitare il servizio militare. Sto cercando di evitare questa
guerra. Ritengo sia una guerra criminale. Il Pentagono, forse, mi
considera un disertore, ma non ritengo, avendo firmato un contratto
con il servizio militare, di essere obbligato a fare cose che vanno
contro i miei principi morali. Anche prima di questa guerra ero un
essere umano con dei principi morali. Sento l’obbligo di non venir
meno al contratto con l’esercito americano. Forse pagherò amaramente
per questo contratto cui sono venuto meno. Se un caso simile al mio
viene pubblicizzato, il Pentagono è in grado di rovinarti la vita.
E’ una decisione che la rende tranquillo anche se dovesse pagare con
la prigione?
Anche se questa mia decisione comporta la galera.
Ci racconta la sua storia?
Nella mia carriera militare sono stato arruolato in Texas come
«active
duty», servizio attivo. Quando sono uscito dall’esercito e mi sono
arruolato nella Guardia nazionale sono stato incoraggiato a rimanere
arruolato nell’esercito con la promessa di accelerare il processo per
acquisire la cittadinanza americana in un numero di anni inferiore:
tre anni invece dei cinque prescritti per chi fa parte dell’esercito
americano. Quando stavo per terminare il mio mandato con la Guardia
nazionale, a gennaio di quest’anno, i miei superiori a Fort Stewart
mi
comunicarono che non avrei potuto lasciare l’esercito, a maggio di
quest’anno, perché il nostro gruppo, grazie all’«ordine esecutivo»
del
presidente Bush, era diventato parte dell’esercito con «effective
duty» in Iraq.
Ha ottenuto la cittadinanza americana promessa, per essersi arruolato
nella Guardia nazionale e andare in missione in Iraq?.
No.
La sua aspirazione era quella di regolarizzare il visto di
immigrazione e diventare un cittadino americano?
Non ho mai cercato di diventare un cittadino Usa, anche se sono
cresciuto qui e vi ho fatto gli studi. Ma questa è stata la promessa
offerta a noi 39.000 non cittadini Usa, ma provenienti da Haiti,
Centroamerica, Messico e paesi del Sud America. Era questo uno dei
benefici che si acquisiva per arruolarsi nell’esercito americano.
Sono
andato in Iraq con il mio plotone di fanteria nel marzo scorso, ma
non
ci dissero che andavamo a combattere e che ci saremmo trovati in
questa guerra. Stavo per terminare gli studi, mi mancavano tre
settimane per terminare il corso al «college». Molti giovani decidono
di arruolarsi per poter studiare ed avere un salario.
Come ha vissuto questi sei mesi nelle prime linee del fronte di
guerra
in Iraq?
E’ stata un’esperienza orrenda. Traumatizzante. Come semplice soldato
di fanteria, le assicuro che tutte le «missioni» cui venivamo
assegnati erano estremamente a rischio: incursioni nel mezzo della
notte per le strade di Baghdad, attacchi alla ricerca dei soldati
della guardia repubblicana di Saddam Hussein. Ad Al Ramadi, che dista
40 chilometri di Baghdad, la stazione assegnataci, ho vissuto
un’esperienza terrificante, piena di immagini e storie che mi hanno
segnato per sempre.
Ha assistito alla morte di altri commilitoni, giovani come lei o
anche
di più?
Durante tutto il periodo che sono stato lì, non ho mai visto un
militare americano ucciso. Ma tanti, troppi iracheni. Ho visto morire
molta gente. Giovani civili e militari. Abbiamo ucciso molta gente.
So
che abbiamo ucciso, in battaglia, anche dei bambini. Per fortuna non
ero presente in questi scontri.
Lei porta con sé l’immagine anche di un solo individuo che ricorda di
aver ucciso? Ha visto le persone che uccideva?
Non lo so. So bene che ho aperto il fuoco, ma è difficile sapere se
ho
la responsabilità individuale di aver ucciso, perché il fuoco veniva
aperto collettivamente dal gruppo dell’unità di fanteria. Voglio
sforzarmi di pensare che non sia stata mia la pallottola che ha
ucciso
uomini, donne, bambini, perché eravamo in molti a far fuoco. E’ un
modo per cercare un senso di colpa collettivo. Preferisco pensare sia
così. In quei momenti non ci si pensa. Esistono paura, angoscia,
frustrazione. L’addestramento impartito nelle basi militari per le
operazioni di guerra non ha nessun collegamento con la realtà che si
vive poi sul campo. Non ti addestrano ad avere emozioni, ma soltanto
ad eseguire ordini impartiti. Molti militari sono impazziti. Alcuni
al
rientro dalle «missioni militari» sono stati per giorni senza poter
parlare e con lo sguardo fisso rivolto contro il muro. Tutto questo
viene coperto da un velo di silenzio dai comandanti superiori,
soprattutto nei casi di tentato suicidio di molti soldati di altre
unità.
Eppure l’operazione mediatica di Bush mostra il personale militare
Usa
in Iraq con «morale alto, dedito ad una guerra di liberazione del
popolo iracheno».
Personalmente, al fronte, ho cercato di non rendere manifesta questa
mia opposizione a questa guerra ma so che, anche se la maggior parte
dei soldati in Iraq era consapevole che il dissenso veniva punito
pagando amaramente, in privato ammetteva che non esistevano ragioni
valide per essere lì in guerra ad uccidere gli iracheni. La
popolazione americana e il mondo intero ha dovuto credere che Saddam
Hussein era responsabile per l’attacco terroristico dell’11
settembre,
ma la leadership che Bush guida non è stata in grado di provarlo. Ci
hanno detto che eravamo lì per rinvenire le armi di distruzione di
massa, non sono stati in grado di provarlo. Sembra a molti di noi che
le motivazioni addotte per questa guerra non possano essere provate.
Siamo stati spediti a migliaia di chilometri di distanza, lontani
dalle nostre case, dalle nostre famiglie per combattere una guerra in
Iraq e gli interrogativi che circolavano nell’esercito erano: Perché
siamo qui? Perché stiamo facendo questo? Perché uccidiamo tanta
gente?
Perché ci sparano contro?
Qual’è la sua interpretazione a quest’ultimo quesito?
Non ho mai avuto la sensazione dei «liberatori» per la popolazione
irachena. Quando percorrevamo le strade, a volte i bambini ci
venivano
incontro, ci salutavano. Naturalmente questo ci faceva piacere, ma a
pensarci bene, la nostra missione non doveva essere quella di
liberare
il popolo iracheno, ma di rinvenire le armi di distruzione di massa,
scovare i terroristi. Son trascorsi mesi e mesi. Siamo ancora lì. Non
c’è elettricità, la gente muore di fame, non ha sicurezza. Quelle
stesse persone che ci mostravano amicizia inizialmente, ora non ci
salutano più. Non vogliono più che stiamo a casa loro. Che tipo di
libertà gli portiamo? Questa gente semina bombe per le strade,
attacca
le forze italiane, australiane, dell’Onu e della Croce Rossa, perché
visti come coloro che collaborano all’occupazione americana in Iraq,
ma il bersaglio colpito dalla resistenza locale irachena è diretto
sempre contro la principale forza occupante: ovvero gli Stati uniti.