Home > Sul dibattito sulla non violenza
Faccio parte di Attac, non sono nel Consiglio Nazionale, lavoro nel
comitato locale di Venezia, contribuisco al lavoro di Attacqua, e
partecipo attivamente dal 2001 al Venezia Social Forum.
Mi sono sentita sollecitata ad alcune riflessioni dall’intervento di
Cinzia Aruzza in questa ml che desidero condividere sperando anch’io
in una qualche loro utilità in Attac e nel movimento.
Inizio dicendo che ho ben compreso le ragioni della dissociazione'
di Marco: quel documento era tutto fuorchè chiaro, prova ne è che
oltre alla sua spiegazione ne è giunta anche un'altra, quella di
Cinzia Aruzza appunto; e una spiegazione è sempre un'interpretazione
(Wittgenstein). Ringrazio Marco Bersani, quindi, per la sua onestà
intellettuale al quale va tutta la mia stima.
Lungi da me il voler fare della nonviolenza una categoria metafisica
assoluta, ma non voglio nemmeno che il campo venga sgombrato così
tout-court dalla dicotomia violenza/nonviolenza, liquindandola quasi
come una perdita di tempo o di vista dei veri obiettivi, quali ad
esempio le lotte degli autoferrotranvieri. Desidero invece che se ne
parli, proprio per comprendere il modo in cui si sta modificando il
movimento in Italia e le ragioni per cui un movimento che sembrava
avere tante potenzialità il febbraio dell'anno scorso, dopo le
manifestazioni del 12 aprile e del 4 ottobre non ha saputo balbettare
una parola sui morti di Nassyria e non sa intrecciare efficacemente
le lotte sociali di questi giorni. Voglio che se ne parli proprio
perché da vetero-marxista potrei dire io per prima che il dibattito
sulla nonviolenza che attraversa il movimento starebbe a dimostrare
le sue radici piccolo-borghesi a fronte delle vere lotte proletarie
che si stanno facendo altrove, e che quindi il tanto vagheggiato
altro mondo possibile rimarrà un ideale kantiano per il movimento
mentre diverrà realtà necessitata in quanto è inscritta nel futuro
stesso di quelle lotte. Per inciso,mutatis mutandis, potrei sostenere
la stessa posizione per la resistenza del popolo iracheno e quello
palestinese.
E invece non lo faccio proprio perché da marxista convinta penso che
allora sì saremmo completamente fuori dal mondo e dalla nostra
storia, dal nostro qui e ora, che ci impone, senza via di scampo,
senza scorciatoie, di fare i conti fino in fondo non solo con delle
categorie di pensiero che pure hanno quantomeno inquadrato una certa
prassi, ma con il Potere che si dispiega ogni giorno in tutta la sua
violenza. E noi, come vogliamo rispondere a questo Potere? Rimanendo
dentro la sua logica di violenza e contemporaneamente agendo per
costruire un altro mondo possibile? Come? Vogliamo riflettere e
ragionare allora su questa categoria dell'alterità? Come possiamo
dirci ed essere
altro’ rispetto a questo Potere?
Mi pare che sulla impossibilità della separazione mezzi/fini siamo un
po’ tutti d’accordo, e del resto dopo l’analisi puntale di Hannah
Arendt nel suo "Sulla Violenza" datato 1968, ritornare a posizioni
machiavelliane sembra davvero una strada non più percorribile. Ma
poi? Basta il rimuovere la dicotomia che il Potere ci propone
(violenza/nonviolenza), basta il simulare nelle piazze la sua
violenza? Non credo sia efficace per nulla, perché se il medium è il
messaggio, e la piazza non è un teatro, quello che passa non è quello
che diciamo di essere, ma quello che facciamo. E in questa società
in cui la Verità la dice la televisione noi ci troviamo ad essere, ci
piaccia o no, quella rappresentazione simbolica' che viene trasmessa
in tv.
Al di là di questa torsione mediatica che i nostri contenuti
subiscono, e che a mio modesto parere altro non fanno se non quello
di allontanare le persone e il loro consenso da noi (non credo sia
un caso se dopo il 4 ottobre tante persone siano tornate a casa e non
abbiano nemmeno avuto la voglia di rimettere fuori la bandiera della
pace in novembre), sono davvero stanca anche solo di sentir usare un
certo linguaggio e di veder vestire in un certo modo, forse perché ho
vissuto il movimento del 77 e già allora in contrasto con le teorie e
le prassi della Autonomia Operaia. Quando sento che si deve
dare
l’assalto alla zona rossa’, assediare l'ambasciata inglese perchè
punto strategico ecc.', indossare caschi e scudi per
difendersi’, mi
rendo conto di quanto noi per primi siamo permeati dalla violenza del
potere, tanto da usare lo stesso linguaggio bellico, qui sì mi vien
da dire `cristallizzati’ e immobilizzati dentro una gabbia non solo
linguistica ma proprio categoriale, che ci impedisce anche solo di
pensarlo, se non di dirlo e praticarlo, un altro mondo possibile.
Per queste ragioni ritengo non più rinviabile un dibattito sulla
nonviolenza che mi auguro il più ampio possibile.
Saluti