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Sul movimento dei movimenti, e sul movimento dei disobbedien
Publie le martedì 21 ottobre 2003 par Open-PublishingSul movimento dei movimenti, e sul movimento dei disobbedienti
Sono passati molti giorni e molta strada è stata percorsa da quel dicembre
del 1999 in cui, la ’Battaglia di Seattle’ squarciò la cappa di immutabilità,
di impossibilità, di mutismo che quello che chiamammo pensiero unico aveva
imposto ai movimenti di ribellione e di trasformazione mondiale.
Per la verità, qualche’giorno’prima, nel gennaio del 1994, l’insorgenza
zapatista lanciava dalle montagne del sud est messicano un messaggio molto
chiaro se pur, all’epoca, compreso da pochi. Quel grido - ¡ya basta! - disse
dell’embrione di una nuova possibilità.
Dopo e grazie a Genova molta strada è stata percorsa fino alle manifestazioni,
straordinarie contro la guerra, all’incredibile 15 febbraio e, infine, alle
contestazioni di Cancun contro il vertice della WTO. Il suo fallimento (il
terzo consecutivo), è stato determinato principalmente dal movimento globale.
L’accumulazione di forze sul piano del consenso e dell’egemonia che i contenuti
del movimento hanno conosciuto, ha investito, modificandolo, l’orientamento
attivo di larghi settori delle opinioni pubbliche. I governi sono stati
messi nella condizione di non poter partecipare in modo clandestino ai processi
decisionali senza subire una vasta contestazione.
Questa accumulazione non è estranea alla rinnovata determinazione e influenza
che alcune aggregazioni di stati hanno manifestato a Cancun. Sono questi,
il disvelamento della favola della fine della storia, l’indicazione di un
nuovo orizzonte e di un nuovo futuro, e la messa in crisi degli strumenti
con cui fino ad oggi si è pensato di gestire i processi di globalizzazione,
due importanti attestati dell’efficacia del movimento dei movimenti. Tutto
questo dimostra che quella strada, che in molti abbiamo imboccato è la strada
giusta. La globalizzazione vive una fase di crisi nella quale la guerra,
appunto globale e permanente, determina come normale, naturalizzandolo,
lo ’stato d’eccezione’. Dentro questa crisi, il movimento dei movimenti,
nella sua dimensione mondiale, ha conosciuto uno sviluppo notevole.
La crescita continua ed esponenziale degli appuntamenti di Porto Alegre,
l’organizzazione del prossimo Forum Sociale Mondiale in India e il Forum
Sociale Europeo di Firenze tutt’altro che inutili convegni o luoghi burocratici,
hanno, intrecciandosi alle mille occasioni di conflitto e contestazione,
allargato e praticato una costruzione di senso, hanno costruito una narrazione
capace di permettere a milioni di uomini e donne di irrompere nella scena
globale e di porsi al suo centro. Su tutto questo ’ perché questo è il punto
centrale - siamo chiamati e chiamate e ragionare noi e l’intero movimento
italiano.
E’ anche questo, come quello globale, un movimento dei movimenti nel senso
di essere pieno di differenze, anche di contraddizioni, ma che è anche stato
capace per lungo tempo di costituire uno spazio pubblico di confronto e
di contaminazione, uno spazio di democrazia, di fare delle proprie differenze
la più forte delle risorse. Oggi ad essere in crisi è proprio il modo con
cui quello spazio pubblico si è organizzato o ha cercato di rendersi riproducibile.
La crisi dei social forum territoriali, la loro regressione allo stadio
degli intergruppi precedente al passaggio di Genova delle identità giustapposte
e forgiate su di una storia precedente e in gran parte mutata rispetto all’oggi,
è la stessa crisi che fu del GSF, oggi gruppo di continuità del FSE. E’
in questa crisi che si collocano anche altre crisi.
Noi, il movimento delle e dei disobbedienti, siamo uno dei movimenti che
fanno e hanno fatto l’insieme del movimento non come risultato di una somma
algebrica, ma come determinazione molteplice di uno spazio pubblico/politico
qualitativamente, oltre che quantitativamente, nuovo. E questo movimento
nel movimento non è stato e non è una piccola ed insignificante componente,
non è mai stato un gruppetto chiuso o isolato. E’ stato anzi, spesso, capace
come il movimento complessivamente ha fatto nel paese, di collocare la propria
specificità al centro del dibattito collettivo. Oggi, di fronte allo schiudersi
di una nuova fase e dentro ad un passaggio pieno di difficoltà, abbiamo
bisogno di fermarci a riflettere e a guardare la strada percorsa per vedere
quella che ci sta davanti.
La strada percorsa ci dice molte cose. Siamo quelle e quelli di Genova,
di una nuova generazione politica più che anagrafica che ha cominciato a
costruire, o meglio ri-costruire, la propria identità sul terreno della
radicalità e del conflitto. Abbiamo imparato e sostenuto che non c’è conflitto
reale senza consenso e che non c’è consenso, attivo e consapevole, senza
conflitto. E’ questo che abbiamo praticato. Lo abbiamo fatto diversi ma
insieme, imparando e cambiando molto. Lo abbiamo fatto violando le zone
rosse che per noi sono prima di tutto la forma che assume un potere che
non immaginiamo più concentrato in un qualunque palazzo di inverno. Ma sempre,
convinti della potenza costituente del movimento e della sua costitutiva
tendenza alla trasformazione, procedendo per affermazione e non per negazione.
Di pratiche, di contenuti, di relazioni, di senso.
Per questo sentiamo la necessità di aprire tra noi e anche fuori di noi,
un confronto serrato sulle prospettive che abbiamo di fronte. Un confronto
vero dove le differenze tornino a essere ricchezza. I disobbedienti sono
il risultato di un incontro tra diversi dove - questo sia affermato una
volta per sempre non esistono marchi doc.- non ci sono i giovani comunisti
e i disobbedienti, non ci sono i politici e quelli del movimento ma si confrontano
disobbedienti e disobbedienze su opzioni e progetti politici. Non c’è tra
di noi l’opposizione tra militanti di partito e attivismo "libero" dal partito,
c’è una tensione che investe chiunque militi in esperienze organizzate che
in questo spazio si incrociano, e oltretutto ci sono tante singolarità che
non "appartengono" ad alcuna e che bisognerebbe rispettare senza schiacciarle
invece in una dialettica tra schieramenti di "organizzati".
Ci sono tanti
modi di essere "partito", e non è detto che quelli non formalizzati siano
i migliori. Non è dunque vero che c’è un problema di "doppio livello" che
investe solo le/gli iscritti ad un partito nazionale: c’è un problema di
progressiva messa in discussione delle appartenenze originarie ,che deriva
proprio dalla novità condivisa di questo spazio politico della disobbedienza,
come è in generale per lo spazio del movimento di movimenti. O almeno, così
ci è sempre parso: che l’assunto dell’insufficienza rispettiva fosse alla
base della condivisione di questo comune politico che è uno spazio nuovo
di sperimentazione nella ribellione
Il documento scaturito dall’incontro di alcune articolazioni del movimento
dei disobbedienti il 5 ottobre scorso all’indomani della manifestazione
di contestazione alla Conferenza Intergovernativa Europea, pone soprattutto
una serie di nodi politici ed è su questo, prima ancora che sul metodo che
intendiamo esprimere un punto di vista e un contributo alla riflessione
collettiva. Il documento, ci pare, affronta mettendoli al centro del ragionamento
tre temi: il rapporto con l’insieme del movimento e dei movimenti, il rapporto
tra la dimensione dell’autonomia sociale e la politica e il tema da sempre
centrale per noi delle pratiche.
1) il rapporto con il movimento e con i movimenti
Abbiamo scoperto, in un recente passato, di aver confuso lo spazio della
rappresentanza del movimento (dal quale noi non siamo estranei) con il movimento
quando a Firenze ci siamo rinchiusi in un luogo separato per poi scoprire,
restando ad occhi aperti, una moltitudine capace di esondare ogni argine
immaginabile. Oggi, ci sembra, corriamo un rischio simile. Eppure ciò che
ci ha caratterizzato e che ha fatto della nostra una nuova esperienza, è
stato il tentativo costante di collocarsi e pensarsi in uno spazio capace
di andare oltre noi come unico orizzonte dell’iniziativa. Abbiamo oggi il
problema di ripensare lo spazio pubblico del conflitto a livello nazionale
e soprattutto sui territori, siano essi metropolitani o meno.
Abbiamo criticato gli anni della concertazione sindacale e della pace sociale
rivendicando la connessione tra le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici
e le lotte del precariato sociale nel contesto della globalizzazione e ponendo
per primi il tema della generalizzazione dello sciopero intrecciando alla
nuova definizione dei soggetti il tema delle loro pratiche di conflitto
sul terreno sociale. Abbiamo riconosciuto e cercato di costruire, se pur
in forma isolata e insufficiente, una relazione diretta con situazioni concrete
di lotta e con il vissuto di soggetti sociali con i quali fino a quel momento
nessuno si immaginava nemmeno di poter comunicare come nella vicenda di
Termini Imerese e più in generale della vertenza Fiat.
Mai abbiamo considerato efficace ridurre la nostra radicalità e la nostra
critica ad un confronto ristretto alle direzioni sindacali o al loro carattere
burocratico. Oggi, di fronte all’apertura di un ciclo di lotte segnato dallo
scontro annunciato sulle pensioni che troverà una prima tappa nello sciopero
generale del prossimo 24 ottobre e dallo sciopero della Fiom che mette al
centro, senza il sostegno di Film e Uilm, il tema decisivo della democrazia
sui luoghi di lavoro dovremmo, piuttosto, discutere a fondo di come ridefinire
il terreno della generalizzazione e quindi, di come massimizzare l’impatto
di conflitto del precariato sociale dentro questa relazione.
La generalizzazione rende visibile le esperenze di autorganizzazione del
precariato sociale, e ci permette di svelare nuovi possibili percorsi. Ma
dobbiamo assumere fino in fondo che, ad oggi, il precariato sociale non
è emerso significativamente come soggettività di lotta e d’iniziativa.
2) Il rapporto tra la dimensione dell’autonomia sociale e la politica
Il movimento tutto nella sua stessa natura e noi per la nostra di laboratorio
e di ricerca antidogmatica, abbiamo avanzato una radicale critica della
politica e delle sue forme di rappresentanza e di organizzazione. La capacità
di mettere allo scoperto il nodo della legittimità e quello della partecipazione
ha fortemente caratterizzato la novità del movimento globale e delle sue
articolazioni.
Con l’esperienza zapatista abbiamo interpretato la centralità della partecipazione
e introdotto il ragionamento sul ruolo possibile del nuovo municipio e abbiamo
provato ad intrecciarli al tentativo di sovvertire la forma gerarchica e
verticale dell’organizzazione a favore di una costruzione di rete fatta
di espressione viva di esperienze e di conflitti sociali.
Il movimento ha lungamente spiazzato la politica perché l’ha investita fino
in fondo, senza limitarsi ad una relazione di tipo lobbistico e smascherando
ogni sua pretesa di separatezza o di impermeabilità. E’ stato capace di
portare così a fondo la sua critica da leggere correttamente la crisi della
democrazia che ha caratterizzato l’ultimo conflitto in Iraq.
Non è possibile, né tantomeno efficace proporre una nozione di autonomia
sociale che mostra la massima e più sostanziale subalternità a quella, contestata,
di autonomia del politico. L’autonomia e l’autorganizzazione delle lotte
e dei percorsi di liberazione è costruzione viva di politica: anzi, la costruzione
di una condizione d’autonomia nella riconquista della politica nel senso
più alto, quello della trasformazione.
Così, con una scommessa per niente scontata negli esiti e che sollecita
alle fondamenta tutte le nostre rispettive identità di provenienza, e senza
la quale non sarebbe nemmeno nato il Carlini e poi il percorso dell’area
della disobbedienza, dobbiamo ancora rispondere al rischio di ritorni della
"vecchia politica", cioè della separazione e della cooptazione operate sul
consenso attivo creato dai movimenti: rischio che vediamo tutti, perché
nessuno di noi intende subire l’indicazione di un "destino" istituzionalista
per i movimenti stessi, affinché conseguano "risultati".
La scommessa con cui rispondere all’evocazione di simili rischi non è quella
di ritirarsi in una presunta autonomia sociale, ma al contrario di voler
essere "politica", praticata differentemente ed in relazione diretta, con
le lotte e le soggettività che esse esprimono. Essere nuovo spazio pubblico,
nuovi ribelli protagonisti della scrittura d’un nuovo vocabolario della
trasformazione, dunque della politica, ecco qual’era la scommessa su cui
ci siamo incontrati e che tanti ha attratto: davvero pensiamo che in due
anni e di fronte alla prima tornata elettorale significativa, questa scommessa
possa considerarsi sconfitta’
Abbiamo la necessità, al contrario, di immaginare una relazione dinamica
tra la dimensione sociale e quella politica.
3) Il tema delle pratiche
E’ un tema questo su cui abbiamo concentrato da sempre la nostra attenzione.
Lo abbiamo fatto, ognuno con il suo bagaglio di esperienze e di culture,
convinti che questo argomento non fosse di interesse esclusivo di una componente,
magari giovanile o estremista ma di tutto il movimento. Più chiaramente
convinti, o almeno noi ne siamo convinti, che la riflessione creativa sulle
pratiche rappresentasse uno degli elementi più innovativi e caratterizzanti
di un movimento, quello globale non leggibile attraverso le lenti del novecento.
Sono anche le pratiche che costruiscono identità ’ per questo flessibili
’, e che danno vita ad un processo di identificazione col movimento nella
sua complessità. Le donne e gli uomini che non credono alla favola della
fine della storia, pur non partecipandovi direttamente, assistendo alle
lotte del MST in Brasile, a quelle delle donne di Cancun, alle centinaia
di interposizioni dal basso che si sono costruite in medioriente, hanno
sentito quelle pratiche dentro di sé, cominciando a percepire un senso di
cittadinanza globale.
In Italia, il ruolo della pratica sociale del movimento e in particolare
della disobbedienza rifiuto e rovesciamento della macchina di violenza che
è la macchina del potere è stato anche e soprattutto quello di ridefinire
in forma nuova il rapporto tra teoria e pratica, tra discorso politico e
partecipazione intervenendo, in modo dirompente, su una tendenza sempre
più diffusa ad immaginare la politica come vicenda separata, consegnata
a tecnicismi e specialismi e per ciò stesso condannata a vivere solo in
una logica di delega e rappresentanza. Con questo spessore e non riducendo
il dibattito ad una questione di tecnica di piazza abbiamo affrontato anche
nel movimento questo dibattito.
Abbiamo giustamente letto la questione della violenza come terreno privilegiato
del potere, come prodotto naturale e diffuso di questa globalizzazione.
A Genova in migliaia abbiamo sfidato la zona rossa per disvelare la violenza
dei potenti per rendere, come dicemmo con efficacia, il Re nudo. Così abbiamo
costruito le iniziative contro i CPT dalla prima, efficace, a l porto di
Trieste all’ultima straordinaria di Bari Palese passando per lo smontaggio
di Via Mattei a Bologna. Così abbiamo intralciato e rallentato i treni della
morte, invaso aeroporti militari e bloccato strade e stazioni durante il
Trainstopping.
Li, pur con tanti limiti abbiamo misurato non un consenso di testimonianza
ma un consenso attivo che ha fatto di quella esperienza un momento in cui
la disobbedienza e stata in parte praticata e certamente condivisa a livello
di massa. Così ancora si sta facendo con l’esperienza di Action a Roma,
vera e propria dimostrazione della possibilità di declinare la disobbedienza
come disseminazione e moltiplicazione sociale di pratiche radicali. Non
è forse un caso che questa esperienza ottenga questi risultati perché interviene
direttamente sul terreno dei diritti fondamentali la cui soluzione si pone
per migliaia di persone come esigenza immediata.
In tutti questi casi, la radicalità non si è misurata sull’intensità dell’evento
ma sulla sua relazione, diretta e immediatamente comprensibile con diritti
negati e bisogni sociali.
La nostra capacità di sottrarci alla violenza come scelta di fondo si è
definita nella convinzione che la violenza e il suo monopolio stiano dall’altra
parte. Nella convinzione che l’altro mondo possibile, qualunque sia passa
per la rimozione della violenza dalle relazioni sociali e, nel nostro caso
e nel nostro contesto, dalla convinzione dell’impossibilità di conservare
un rapporto tra conflitto e consenso, se pur nella sua dimensione processuale,
senza impedire che le nostre pratiche e le nostre scelte siano anche soltanto
percepite come ambigue su questo terreno.
Oggi, in un epoca in cui sembra
normale che alle riunioni sull’ordine pubblico partecipi il Generale Tricarico
e soprattutto dove il trattato di Amsterdam si appresta, con l’avallo della
commissione presieduta da Romano Prodi, a rendere operativa una serie di
normative che fanno del conflitto sociale e politico, come categoria, un
fenomeno terroristico (le denunce ad Action e ai disoccupati organizzati
di Napoli per Associazione a delinquere finalizzata in un caso a delitti
contro il patrimonio immobiliare e nell’altro all’estorsione la dicono lunga)
abbiamo più di prima la necessità di ragionare a fondo sulla questione della
repressione. Dobbiamo farlo noi e dobbiamo pretendere da tutto il movimento
e dalle forze politiche una attenzione e una capacità di intervento che
troppe volte sono mancate o sono risultate insufficienti.
E’ in questo quadro, e in tutta la sua complessità che si pone, anche per
noi il dibattito sul rapporto tra violenza e non violenza. Sappiamo bene
che nelle discussioni del movimento questo tema è stato più volte agitato
più come uno spettro che come reale e impegnativo terreno di ragionamento
e di confronto. Sappiamo che, si è spesso cercato di sovrapporre questa
discussione a quella da noi più volte posta del rapporto tra legalità e
illegalità. Sappiamo ancora, che più di una volta questa discussione è servita
per nascondere la tendenza di molti settori del movimento a escludere a
priori ogni pratica attiva per quanto non violenta negli appuntamenti di
contestazione.
Ci ricordiamo come durante il Trainstopping molti soggetti
intorno a noi abbiano cercato di escludere quella pratica dalle ’scelte
del movimento’ utilizzando come una clava la banalizzazione di questo dibattito.
Sappiamo infine, che non c’è violenza più grande della guerra o delle politiche
che costringono alla morte per fame o malattie milioni di persone. Sappiamo
tutto questo eppure tutto questo non basta a risolvere il problema ne permette
di eluderlo.
Non è possibile eludere il problema della dimensione di massa, tutt’altra
cosa dalla massificazione, della disobbedienza e della pratica possibile
dell’illegalità rifuggendo in uno schema tipico di quella vecchia politica
che ci diciamo di voler radicalmente trasformare come quello dell’avanguardismo.
Non è possibile, rischiare, in un contesto come quello del 4 ottobre di
offrire noi per primi, a Gianni De Gennaro, la possibilità di presentarsi
ripulito dalla macelleria di Genova.
Eppure anche in questo caso ci avevamo provato. Avevamo tentato di recuperare
quella vocazione allo spiazzamento che aveva segnato come elemento caratterizzante
l’intelligenza della disobbedienza, la sua forza di impatto, la sua capacità
comunicativa, la sua efficacia. La presa di parola e di spazio delle donne,
pur nei limiti di ogni tentativo nuovo, ci pareva un segnale, l’aprirsi
di una possibilità. Si è fatta, invece, un’altra scelta, incomprensibile
e sbagliata.
Ma l’attraversamento del passaggio del 4 ottobre, con il suo carico di tensione
e con i suoi pesanti strascichi giudiziari, è anche il risultato di un problema
non risolto e da molto tempo posto. Il tema del chi decide cosa, lungi dall’essere
questione burocratica o inessenziale nelle relazioni interne a qualsiasi
dinamica di movimento pone un problema che attiene alla forma e lo sviluppo
della nostra esperienza collettiva. La rappresentazione nazionale, i grandi
eventi hanno costituito per lungo tempo un potente propulsore alla crescita
del movimento tutto e in particolare dei disobbedienti. Oggi, quando la
nostra rete misura una estensione e una moltiplicazione di nodi significativa
il momento centrale rischia spesso di divenire un tappo alla crescita, un
muro invalicabile alla presa di parola e alla piena espressione di potenza
di tantissime realtà.
Non è possibile non vederlo né si può rappresentare,
distorcendolo, questo problema come falsa questione o peggio come riproposizione
di vecchie logiche da apparato. La nostra ricerca deve avere la capacità
d’invertire questa tendenza. Ricostruire e ridefinire una rete delle disobbedienze
sociali, può essere formula vuota, ma può anche essere riempita dalle concrete
ed esistenti esperienze territoriali e dalle diverse reti tematiche e di
progetto, in una differente modalità di relazione espansiva tra spazi, luoghi
e soggetti sociali che praticano disobbedienza.
Da queste considerazioni vogliamo ripartire. Perlomeno, da questo grado
di chiarezza nella nostra discussione. Senza timori, retaggio di una storia
e di una modalità di far politica vecchia e muta, di costituire con ogni
discussione una rottura, una polarizzazione o peggio di determinare dissociazioni
e scontri per l’egemonia. Abbiamo bisogno di rilanciare una vera e propria
iniziativa costituente capace innanzitutto di disporsi come processo includente
per mille realtà e mille soggetti che oggi non incontriamo nello spazio
della disobbedienza. Abbiamo bisogno di rimetterci in cammino, di ricominciare
una ricerca consapevoli che non ci sono scorciatoie né fughe in avanti possibili.
Una ricerca che metta al centro una riarticolazione dei contenuti e delle
pratiche ma anche una dimensione di rete non escludente. Non vogliamo riprodurre
forme comunitarie fondate sull’esclusione di ciò che si muove fuori dal
perimetro ne sulla giustapposizione di identità precostituite ed immutabili.
La contaminazione che ci proponemmo dopo Genova e che per la verità aveva
avuto inizio sei anni prima nell’avventura dei treni per Amsterdam funziona
solo se è pensata da tutti e da tutte come risposta necessaria alla propria
insufficienza.
E’ in questa dimensione che possiamo immaginare un nuovo
futuro , nuove sperimentazioni anche più radicali e coraggiose di quelle
fin qui praticate. Il Forum sociale Europeo di Saint Denis rappresenta un
primo importante banco di prova. Non abbiamo che da provarci.
Sergio Boccadutri, Danilo Corradi, Michele De Palma, Barbara Ferusso, Nicola
Fratoianni, Francesco Minisci, Daniela Santroni, Gianluca Schiavon, Federico
Tomasello.