Home > Sulle illusioni.
Inviamo questo testo di Warshawski che ci sembra molto utile contro le illusioni seminate ancora
in questi giorni sugli "accordi di Ginevra" e la Road Map, dando poca o nulla visibilità a coloro
che esprimono da sinistra una critica.
Segnaliamo anche che è a disposizione un ricordo di Edward Said (un’altra voce critica oscurata a
lungo e purtroppo oggi sparita), scritto da Tarq Ali. Non lo inviamo come solo testo, perché si
perderebbero note e caratteri particolari, ma lo invieremo come allegato a chi lo chiederà (niente
paura, lo faremoda un computer dotato degli ultimissimi filtri antivirus).
SI CREA L’ILLUSIONE...
Resoconto della prima parte di una conferenza/dibattito tenuta da Michel Warshawski il 18 ottobre
2003 a Baiona, su invito del Movimento Giustizia per la Palestina, del Paese Basco
Il muro
Il giorno in cui ho lasciato Gerusalemme per l’Europa, il governo israeliano confermava la
costruzione del secondo tratto del muro, che entra per 16 km all’interno del territorio palestinese.
Sapendo che l’ampiezza della Cisgiordania abitata (oltre la valle del Giordano) è di 23 km, ci si
rende conto di come il muro penetri a fondo nel cuore della realtà palestinese. Non ha niente a
che vedere con il presunto muro di separazione di Israele dai territori occupati. Il governo ne ha
confermato il tracciato, nonostante l’opposizione degli Stati Uniti e le minacce di tagliare una
parte degli aiuti civili, non militari, a Israele. Se il governo ha osato sfidare gli americani,
malgrado la crisi economica senza precedenti in Israele, vuol dire che un piano lo ha. C’è dietro una
logica, incluso nel massiccio ricorso alle violenze: massicce sono le distruzioni di case, e anche
lo sradicamento di frutteti, in ben determinate zone.
Sulla conclusione della guerra di colonizzazione Sharon ha espresso pubblicamente e chiaramente la
sua logica, sui vari media e in varie sedi. Tutto prende avvio dalla sua frase preferita: "La pace
non è all’ordine del giorno nei prossimi cinquant’anni", perché questi vanno dedicati alla
prossima fase della colonizzazione della Palestina. Sharon lo dice e lo ripete: "La guerra del 1948 non è
finita". L’errore di Rabin o di quelli che hanno creduto negli accordi di Oslo era quello di
pensare di porre fine al processo di colonizzazione e stabilire finalmente una frontiera.
Sharon sostiene: "La frontiera, forse fra 50 anni, fra 100. Nel frattempo bisogna finire di
colonizzare ciò che c’è da colonizzare". Un ulteriore elemento è dato dall’affermazione di Sharon: "Non
sono contrario a uno Stato palestinese". Salvo il fatto che questo Stato palestinese sarà in zone
molto precise, in un’area di un po’ meno della metà della Cisgiordania e di un po’ più del 65%
della Striscia di Gaza.
Lo Stato palestinese sì, ma a determinate condizioni: che si limiti alle
"enclaves" che, esattamente, il muro sta cercando di delimitare. Questo muro sta seguendo le linee di
quello che Sharon e il suo governo sono disposti a riconoscere come uno Stato palestinese, o
piuttosto come "enclaves" di quest’ultimo.
Esse saranno separate fra loro, dei veri e propri bantustan. Sharon usa il nome di cantoni ed è
disposto a prevedere ponti o tunnel per collegarle, entro uno spazio israeliano.
Evidentemente, non vi sarebbe alcun controllo palestinese sulle frontiere, sulle risorse naturali,
soprattutto sull’acqua, sugli spostamenti tra queste zone, e tutto sarebbe gestito e controllato
da Israele. Ai palestinesi rimarrebbe il diritto di gestire la rete stradale e l’istruzione. Così
come lo ha tracciato il governo, il muro non punta a separare Israele dalla Cisgiordania, ma a
separare la popolazione israeliana dalle zone con popolazione palestinese. Si tratta di un piano
folle, che non ha alcuna probabilità di ottenere il consenso del più moderato dei moderati palestinesi.
Sono tre anni che si cercano palestinesi "pragmatici", cioè dei collaborazionisti disposti ad
accettare questa formula e a gestire i bantustan. Nessuno risponde "Presente".
Ormai tutti sanno che una squadra del genere non esiste. Il popolo palestinese non è ancora
disponibile ad accettare questi bantustan. Non basta costruire un muro, ma occorrerebbe anche ottenere
la completa capitolazione dei palestinesi. Vogliono che i palestinesi alzino le braccia e dicano:
"Ok, tutto quello che volete, ma lasciateci in pace". Dopo tre anni di repressione senza
precedenti, migliaia di morti, decine di migliaia di invalidi, migliaia di prigionieri e di distruzioni di
cui è impossibile fare l’elenco, è chiaro però che la popolazione palestinese di Cisgiordania e
Gaza, che ha pagato un prezzo enorme, non si è mossa di un millimetro dalle proprie rivendicazioni.
Ed impedisce che emerga un eventuale gruppo di collaborazionisti.
Per instaurare i bantustan occorre per questi una polizia, un governo. Il livello di resistenza
dei palestinesi, pur non essendo sufficiente a imporre una soluzione che consenta loro di recuperare
i propri diritti (la sovranità, l’indipendenza, il controllo del territorio sul 22% della loro
patria), lo è però per impedire la realizzazione di questi piani. È infatti tutto quello che
chiedono: meno di un quarto di quella che era storicamente la loro patria storica, meno della metà di
quello che l’Onu aveva accordato loro nel 1947. Essi dicono: "Dateci questo, ci basterà. Non sarà
tanto giusto, ma ci accontenteremo".
La popolazione palestinese dice unanime: "È l’ultima offerta da parte nostra, ed è estremamente
generosa". Ed è una proposta molto generosa, ben più di quella di Ehud Barak a Camp David. I
palestinesi gli hanno dato il nome di compromesso storico. Di meno, non sarebbero disposti ad accettare.
In Palestina ci sono 4 milioni di palestinesi: 1 milione nella Striscia di Gaza, 2 in Cisgiordania
e 1 in Israele, anche con cittadinanza israeliana. Il numero dei profughi si valuta sui 4 milioni.
Pacificazione
Non solo il muro è costruito in modo unilaterale, ma consente inoltre, dal punto di vista
israeliano, di instaurare il nuovo ordine di Israele. Per farlo, bisogna infatti ottenere la capitolazione
dei palestinesi. Si tratta di una guerra di "pacificazione". Si sbaglia a parlare di guerra
"israeliano-palestinese". Una "guerra" presuppone eserciti che si scontrano. I più anziani dovrebbero
ricordarsi dell’Algeria o del Vietnam. Una campagna di "pacificazione" è l’impiego massiccio di un
esercito per imporre a una popolazione civile la capitolazione. Significa separare con la forza una
popolazione civile dal suo movimento di liberazione nazionale e dall’aspirazione ad essere
nazione. Nonostante tutti i tentativi, tutta la violenza messa in atto, la pacificazione è fallita. I
palestinesi sono molto stanchi, provati dalla repressione, ma ben lungi dal capitolare.
La "Road Map"
La "Road Map" è una decisione americana, che parte dal presupposto che sia impossibile in questo
momento imporre ai palestinesi una soluzione con la forza. Ogni volta, l’esercito israeliano ha
affermato: "Dateci altri due mesi, e li spezziamo" (come qualsiasi esercito coloniale, del resto),
poi "ancora due mesi", e alla fine, l’amministrazione americana ha detto: "Non riuscirete a
spezzarli, bisogna tornare al tavolo dei negoziati". Posso dire in partenza che questa "Road Map" fallirà,
soprattutto per responsabilità del governo israeliano, parte del quale vuole soltanto una
soluzione militare.
Una parte rilevante dell’opinione pubblica israeliana è stanca di questa guerra, e vuole una
soluzione politica. Così, si provocano attentati, che interrompono la tregua e giustificano una nuova
fase di repressione israeliana. Lo dico con chiarezza: gli attentati sono cinicamente provocati
dall’esercito israeliano.
Ogni volta che c’è un cessate il fuoco, una tregua o una trattativa per una
tregua, come per caso c’è un assassinio mirato di qualche dirigente palestinese e c’è naturalmente
la rappresaglia palestinese.
Spesso, i palestinesi aspettano due attentati prima di agire. Gli israeliani sanno che prima o poi
reagiranno con un attentato sanguinoso a Tel Aviv o a Gerusalemme: E allora dicono: "Vedete che
non rispettano la tregua? Torniamo alla soluzione militare, la pace è impossibile".
L’espulsione (il "transfert")
Il trasferimento, che consiste nello sbarazzarsi dei palestinesi, è un vecchio piano, una specie
di fantasma che punta a farli sparire. Rabin aveva detto "ho sognato lo sprofondamento di Gaza in
mare"... Il sogno è che un giorno 1 milione di palestinesi spariscano dalla Palestina. Per altri,
si tratta di un progetto politico.
Nel governo Sharon, ci sono ministri che appartengono a partiti dichiaratamente pro-transfert,
vale a dire: un’altra espulsione dei o di palestinesi dal loro paese, siano essi cittadini israeliani
o residenti di Cisgiordania e Gaza. Non credo che la politica dell’attuale governo, di cui Sharon
rappresenta l’ala moderata, sia favorevole a questo, perché sarebbe rischioso. È ciò che gli
americani gli hanno fatto capire al momento della crisi precedente della Guerra del Golfo, al momento
dell’attacco all’Iraq. Si è creduto che questo avrebbe creato le condizioni per un’ondata di
epurazione etnica, un concentramento di popolazione, di pulizia della zona C, del 50% di quello che
Sharon considera la rimanente zona di colonizzazione, e il raggruppamento del resto nell’altro 50%.
L’idea rimane, i piani ci sono, ma si aspetta l’occasione propizia.
Personalmente, dubito che questa occasione si presenti in un prossimo futuro, perché, per questo,
mai le circostanze sono state così favorevoli come al momento della guerra contro l’Iraq e,
credetemi, più di un ministro ci ha lavorato sopra. Erano pronti piani dell’esercito. Il veto americano
in proposito è stato chiaro.
L’altro progetto è il cosiddetto "transfert volontario", che cioè i palestinesi "se ne vadano da
soli". Si porta avanti una politica di pressione, con durissime condizioni di sicurezza, una
politica economica catastrofica, per indurli ad andarsene.
Nella zona di Betlemme, se ne sono andati negli ultimi anni 100-150.000 palestinesi, molti dei
quali cristiani, perché per loro è più facile, avendo parenti in Occidente, avendo imparato lingue
straniere nelle scuole cattoliche o protestanti. Tra chi se ne è andato ci sono parecchi quadri,
dirigenti di associazioni, capi d’azienda, e questo comporta un impoverimento della società.
Il diritto al ritorno
C’è un mito proposto dalla propaganda israeliana, e sulla stampa europea. I nostri principali
intellettuali israeliani hanno scritto della brutta sorpresa dei negoziatori israeliani, quando Yasser
Arafat ha tirato fuori dal cappello "il diritto al ritorno" al momento dei negoziati. Si tratta di
una bugia, perché questo era già previsto negli accordi di Oslo. Non vi è mai stata una
dichiarazione palestinese in cui ci si sia dimenticati della rivendicazione del diritto al ritorno. Il resto
è solo un marchingegno propagandistico.
I pacifisti o i moderati israeliani si sono convinti che i palestinesi vi avessero rinunciato e
hanno detto quindi alla destra israeliana: "voi rinunciate alle colonie, e li faremo rinunciare al
diritto al ritorno". Per cinque anni si è svolta una trattativa tra la sinistra e la destra
israeliana su "fino a che punto si poteva arrivare".
Per i palestinesi è impossibile rinunciare a questa rivendicazione. Non è ancora nato il dirigente
palestinese che possa rinunciare al diritto al ritorno.
È pericoloso fare compromessi respinti in
massa dall’opinione pubblica palestinese. Il movimento nazionale palestinese non può accettarli,
perché si tratta, appunto, della capitolazione che gli altri vorrebbero.
Demografia?
Uno dei nostri compiti è quello di rieducare la popolazione israeliana sulla questione
demografica. La sostanza della concezione sionista è la normalità, l’egemonia. Uno Stato normale è quello in
cui si ritrova un’etnia, una religione, in cui la maggioranza rifiuta le minoranze come un corpo
estraneo. È la ragione per cui, nel sionismo, il razzismo e l’antisemitismo sono fenomeni naturali.
Il sionismo ne ricava le conseguenze: come minoranza ebraica nell’Europa cristiana, si opera
l’autoepurazione etnica, "meglio andarsene prima che ci buttino a mare", cercando di creare un posto
dove ci siamo soltanto noi.
L’epurazione etnica va sempre insieme alla demografia. L’unica normalità è: "noi a casa nostra,
voi a casa vostra", ed è lo slogan della sinistra israeliana. In Francia, è quello di Le Pen; in
Israele quello di Barak.
Basta vedere, in Israele, come sono trattati i lavoratori immigrati: sono 400-500.000 e si
continua a non vederli. Non li si vuole accettare perché si è uno Stato ebraico. Stato etico significa
anche il più etnicamente puro possibile, significa "soglia di tolleranza", concetto noto anche in
Francia. Bisogna affrontare il problema.
Vivere ossessionato dal ventre della mia vicina araba, che fa troppi figli, e da quello della
vicina ebrea, che non ne fa abbastanza, non è vita ma pazzia furiosa. Lo ha detto Golda Meir:"Non
dormo la notte pensando a ogni bambino arabo che nasce". Se gli israeliani rifiutano il diritto al
ritorno è per paura di ritrovarsi minoritari e quindi dicono: diritto al ritorno uguale distruzione
dello Stato di Israele, uguale distruzione del popolo ebraico. Salvo il fatto che questi signori si
sbagliano.
Supponiamo che non rientri alcun profugo. Di qui a una quindicina di anni, gli ebrei sarebbero
comunque minoranza, stando ai naturali ritmi di crescita di ciascuna comunità.
In Israele vi è un 20% di cittadini provenienti dalla "ex-Urss", oltre la metà dei quali non sono
ebrei; e questo fa già: 10% + 20% di arabi + 7% di lavoratori immigrati, vale a dire già un 37% di
non ebrei, che è ben oltre la "soglia di tolleranza".
Non si può pensare la questione nazionale in termini demografici. Il solo modo per esistere è
riconoscere la pluralità. Il solo modo per garantire un’esistenza nazionale consiste nel riconoscere
diritti nazionali a ciascuna comunità in varie forme (ad esempio, il modello svizzero o jugoslavo).
Altrimenti, si arriverà ogni volta a una nuova ondata di epurazione etnica. Appena superato il
35%: fuori!
Le azioni armate in Israele
Su questo c’è già un grosso dibattito, e fra gli stessi palestinesi c’è una pluralità di
posizioni. Si tratta di un dibattito pubblico assolutamente libero.
La prima discussione riguarda gli "attentati suicidi". Una grande percentuale di palestinesi è
contraria, per svariati motivi. Alcuni dicono: "Ci sono determinate cose che non si fanno, non tutto
è lecito in una lotta giusta. Ci sono mezzi che sono inaccettabili". Altri respingono gli
attentati contro i civili perché "Compattano la santa alleanza intorno a Israele, screditando la causa
palestinese agli occhi dell’opinione pubblica internazionale". Altri ancora pensano alla società
palestinese di domani e dicono: "non è accettabile moralmente, ma è anche criminale, perché provoca
deformazioni etiche, psichiche, della nostra società, di cui si pagherà il prezzo fra vent’anni".
Fin d’ora, fra i palestinesi e gli israeliani, il rapporto con la morte è un rapporto malato. È un
errore pensare che rendendo la vita difficile agli israeliani, la gente esploderà e dirà al
governo: "Fate la pace, non se ne può più". Era vero dieci anni fa, ora non più.
Si è riusciti a convincere la gente, ed è uno dei maggiori crimini di Ehud Barak, che si trattava
di una questione di sopravvivenza, che ci si sarebbe trovati di fronte a un popolo il cui
obiettivo non è l’indipendenza e la sovranità nazionale, ma quello di distruggere noi israeliani. Si è
entrati in un clima di follia. Ormai gli attentati non colpiscono più, ci si è fatta l’abitudine.
Anziché vedere in essi un fallimento totale, diventano il normale prezzo da pagare per sopravvivere.
Fra coloro che criticano, solo una minoranza ritiene che bisogna opporvisi, essendo i più convinti
che i palestinesi siano talmente provocati che le risposte abbiano una spiegazione logica. Un
attacco suicida ha sempre una ragione, quando si è assistito all’umiliazione subita dalla propria
famiglia. Vi sono casi, e mi è capitato più di una volta, in cui si ha voglia di farsi saltare in
aria.
Una volta, a uno sbarramento a Gerusalemme, faceva un gran caldo. Per una ragione sconosciuta, lo
sbarramento era stato chiuso, e non si sapeva se lo sarebbe stato per un’ora, un giorno o una
settimana. Stavo tornando da Ramallah (cosa che non ho il diritto di fare) e mi ritrovo bloccato.
Scorgiamo una coppia con un neonato, di appena due o tre giorni, che tornava a casa dall’ospedale.
Chiedo a una giornalista presente di intervenire cortesemente, ma finisce per farsi respingere con
urla. Intervengo io, e mi respingono. In quel momento volevo uccidere il soldato, che non vedeva un
neonato ma un terrorista. Gli dicevo: "Guarda questo bambino!", ma non c’era niente da fare. Gli
israeliani sanno fin troppo bene che cosa si deve fare per provocare attentati. Quando non ve ne
sono più, sono costretti a trattare. Chi si azzarda a criticare Israele quando si vedono in
televisione attentati sanguinosi?
Quello sugli "atti di resistenza non suicidi" è un altro dei dibattiti, che riguarda soprattutto i
palestinesi.
Le azioni militari sono del tutto legittime. Si ha il diritto di opporsi e di resistere. Ma gli
israeliani vogliono creare l’illusione di una guerra. Non si tratta però di un conflitto armato. Se
qualcuno riempie il figlioletto di botte non si tratta di un incontro di pugilato, ma di violenza
su minori, punto e basta.
Si è arrivati a sminuire la dimensione dell’occupazione. Si crea l’illusione di una equidistanza
tra due campi, che bisognerebbe separare. Si tratta di un’occupazione, con tutta la violenza
propria di un’occupazione, di una colonizzazione, di un popolo contro l’altro. E a volte l’altro
risponde, spesso con semplici pietre.
Michel Warschawski
La redazione di Bandiera Rossa News