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Il prezzo crolla sul mercato internazionale e la crisi avanza. Milioni di persone rischiano la fame per arrichire le multinazionali della caffeina
Tutto l’amaro del caffè
E’ una catastrofe silenziosa che si consuma nell’angoscia dei debiti, nella disperazione di ritrovarsi fra le mani una ricchezza che non vale più niente. E’ una crisi che sta distruggendo la vita a 25 milioni di persone: braccianti, contadini e piccoli imprenditori messi in ginocchio dal rapidissimo ribasso del valore del caffè sul mercato mondiale. Le cifre parlano da sole: in tre anni il prezzo è crollato del cinquanta per cento toccando il livello più basso degli ultimi trent’anni. Appena due anni fa le esportazioni dei paesi produttori coprivano un terzo del mercato mondiale, oggi riescono ad aggiudicarsi meno del dieci per cento di un mercato che è sempre più saturo.
Così gli agricoltori, per la maggior parte piccoli proprietari, sono costretti a vendere i loro raccolti al di sotto dei costi di produzione, e quello che ne ricavano non basta più per pagare cibo e medicine. Così i loro figli sono costretti ad abbandonare le scuole per andare a lavorare nei campi e sostituire i braccianti stagionali, che restano senza lavoro. Le piccole imprese di import-export sono costrette a chiudere, subito seguite dalle banche locali, prosciugate dalla loro insolvenza. Alla fine la crisi del caffè finisce col risucchiare i fondi pubblici dei paesi produttori, spingendoli sempre più giù nella spirale del debito estero.
Un male antico
Quella del caffè è una crisi su scala globale che riflette in pieno i profondi squilibri dello scambio ineguale. Ma è anche una crisi dalle radici storiche profonde, che affondano nei tempi remoti della colonizzazione, quando l’Occidente riuscì a imporre ai paesi del Sud del mondo le politiche economiche e produttive più convenienti per il Nord. Fu allora che i tropici vennero destinati a ospitare le grandi piantagioni di zucchero, di banane e di ananas che avrebbero trasformato il profilo ecologico e sociale di intere nazioni. Fu allora che vennero piantati i semi maligni della subalternità, rendendo l’economia dei paesi destinati alle monoculture totalmente dipendenti dalla fluttuazione delle tariffe - sulle quali, fra l’altro, le grandi potenze potevano intervenire ad arte per assicurarsi la totale obbedienza dei governanti. Fu allora che venne generato un paradosso senza precedenti storici: i paesi che ospitavano le terre più fertili del pianeta sarebbero stati costretti a importare le derrate alimentari necessarie per nutrire i propri cittadini, avendo destinato integralmente le coltivazioni alla soddisfazione della domanda dei mercati occidentali.
La monocultura del caffè, per quanto sia rimasta essenzialmente familiare e quindi al riparo dei peggiori eccessi delle varie "repubbliche delle banane", si iscrive in questa logica. Oggi ci sono paesi che dipendono quasi integralmente dalle esportazioni di caffè: per 79 per cento il Burundi, per il 54 per cento l’Etiopia, per il 43 per cento l’Uganda, per il 31 per cento il Ruanda e per il 24 per cento l’Honduras. Un livello di dipendenza che amplifica le conseguenze negative della più piccola variazione climatica, e che trasforma il calo del prezzo in una catastrofe per i proprietari delle fattorie a conduzione familiare che costituiscono ancora l’ossatura della produzione globale del caffè. Perché se è vero che la frammentazione produttiva - si calcola che almeno il settanta per cento delle fattorie conti meno di dieci ettari - ha salvato questa gente dai mali peggiori dello sfruttamento intensivo in stile United Fruit, non riesce a proteggerla dagli effetti nefasti della globalizzazione corporativa.
Big coffee all’arrembaggio
La caduta del prezzo del caffè sul mercato mondiale è stata innescata dalla concentrazione delle attività di tostatura e trasformazione in poche grandi compagnie che hanno attuato una politica di riduzione della qualità e di abbattimento dei costi. Il mercato è dominato da quattro giganti, Kraft, Nestlé, Procter & Gamble e Sara Lee, ognuno dei quali può vantare svariate marche di caffè con vendite annuali che si aggirano sul miliardo di dollari annui. Insieme al gigante tedesco Tchibo, le quattro Big comprano la metà della produzione mondiale. I margini di profitto sono alti - Nestlè guadagna il 26 per cento sul caffè istantaneo mentre Sara Lee si attesta sul 17 per cento - molto più alti di quelli registrati nel settore delle bibite. Non ci sarebbe nulla di male se tali profitti non fossero pagati dai contadini costretti a vendere al di sotto del costo di produzione, ovvero da alcune delle popolazioni più povere della terra. Imporre prezzi così bassi è una strategia rischiosa per Big Coffee. A breve termine può produrre ingenti profitti ma a lungo termine l’abbattimento del livello di qualità - ottenuto spingendo sempre più il mercato verso il caffè istantaneo - e lo sfruttamento feroce degli agricoltori rischiano di provocare la disaffezione dei consumatori, come dimostra l’aumento delle vendite di prodotti di equo-solidali.
Il problema è che, una volta partita, la crisi è molto difficile da disinnescare. Meno ti pagano la merce e più cerchi di produrne ma più ne produci più, inevitabilmente, il prezzo scende. La mossa disperata del Vietnam, ad esempio, che l’anno scorso ha lanciato sul mercato i suoi raccolti al 60 per cento del costo di produzione, ha costretto un grande produttore come il Brasile a incrementare ancora di più la produzione. Ma un mercato invaso da un’ingente quantitativo di caffè di bassa qualità non poteva che spingere le quotazioni del caffè ancora più in basso. A questo bisogna aggiungere il ruolo che le multinazionali del caffè giocano nel mercato globale: con un colpo di mouse possono passare da un fornitore a un altro, inseguendo il prezzo più stracciato per tutto il pianeta.
Alla spettacolare libertà di movimento delle corporation non corrisponde altrettanta possibilità di scelta dall’altra parte della filiera. Senza strade o trasporti per i mercati locali, senza accesso al credito o alle informazioni sui prezzi, la maggior parte dei produttori è in balia dei prezzi imposti dai compratori locali. Passare a un’altra coltura, dopo avere investito quattro anni di lavoro in attesa del primo raccolto utile - tanto ci mette la pianta - è davvero difficile per un’impresa familiare. La strada per la fuga dalla fame diventa, allora, obbligata.
La droga avanza
«In Etiopia, dove il caffè ebbe origine 3mila anni fa, i contadini tagliano i cespugli per rimpiazzarli con il khat, una droga che ha un’ampia diffusione nei paesi africani». Così scriveva il Financial Times la settimana scorsa, prendendo atto di una delle conseguenze della crisi globale che sta letteralmente mettendo in ginocchio la già povera Etiopia, dove circa 700 mila persone dipendono direttamente dalla coltivazione del caffè.
Niente di nuovo sotto il sole. Ai contadini etiopi non resta che imboccare la strada sulla quale sono stati preceduti dai peruviani, dai colombiani e dai boliviani che hanno cominciato - o semplicemente ricominciato - a coltivare piante di coca al posto del caffè. In alcune zone "la guerra alla droga" sponsorizzata dalla Dea statunitense aveva imposto - per amore o per forza - la riconversione delle antiche piantagioni di coca al caffè, scatenando talvolta la resistenza delle popolazioni indigene, lasciate da sole a pagare i costi della lenta sostituzione delle colture. Ma la potente Dea non può - o non vuole - incidere sulle tariffe globali, anche se in passato la Cia ha disinvoltamente utilizzato anche questo strumento per fare fuori governi poco graditi del Terzo mondo.
Ai contadini andini non resta quindi altra scelta visto che il caffè viene pagato 65 centesimi a libbra e la coca tre dollari. Le condizioni climatiche sono ottimali per entrambe le coltivazioni anche se, e i contadini lo sanno benissimo, per scappare dalla fame finiranno nelle braccia dei narcotrafficanti con tutto il corollario di violenze e disgregazione sociale che questo comporta.
Sabina Morandi