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Un contributo alla riflessione sul movimento, sul 4 e su noi

Publie le mercoledì 15 ottobre 2003 par Open-Publishing

Sono passati molti giorni e molta strada è stata percorsa da quel dicembre
del 1999 in cui, la ³Battaglia di Seattle² squarciò la cappa di
immutabilità, di impossibilità, di mutismo che quello che chiamammo pensiero
unico aveva imposto ai movimenti di ribellione e di trasformazione mondiale.
Per la verità, qualche²giorno²prima, nel gennaio del 1994, l’insorgenza
zapatista lanciava dalle montagne del sud est messicano un messaggio molto
chiaro se pur, all’epoca, compreso da pochi. Quel grido - ¡ya basta! - disse
dell’embrione di una nuova possibilità.

Dopo e grazie a Genova molta strada è stata percorsa fino alle
manifestazioni, straordinarie contro la guerra, all’incredibile 15 febbraio
e, infine, alle contestazioni di Cancun contro il vertice della WTO. Il suo
fallimento (il terzo consecutivo), è stato determinato principalmente dal
movimento globale.

L’accumulazione di forze sul piano del consenso e dell’egemonia che i
contenuti del movimento hanno conosciuto, ha investito, modificandolo,
l’orientamento attivo di larghi settori delle opinioni pubbliche. I governi
sono stati messi nella condizione di non poter partecipare in modo
clandestino ai processi decisionali senza subire una vasta contestazione.

Questa accumulazione non è estranea alla rinnovata determinazione e
influenza che alcune aggregazioni di stati hanno manifestato a Cancun. Sono
questi, il disvelamento della favola della fine della storia, l’indicazione
di un nuovo orizzonte e di un nuovo futuro, e la messa in crisi degli
strumenti con cui fino ad oggi si è pensato di gestire i processi di
globalizzazione, due importanti attestati dell’efficacia del movimento dei
movimenti. Tutto questo dimostra che quella strada, che in molti abbiamo
imboccato è la strada giusta. La globalizzazione vive una fase di crisi
nella quale la guerra, appunto globale e permanente, determina come normale,
naturalizzandolo, lo ³stato d’eccezione². Dentro questa crisi, il movimento
dei movimenti, nella sua dimensione mondiale, ha conosciuto uno sviluppo
notevole.

La crescita continua ed esponenziale degli appuntamenti di Porto Alegre,
l’organizzazione del prossimo Forum Sociale Mondiale in India e il Forum
Sociale Europeo di Firenze tutt’altro che inutili convegni o luoghi
burocratici, hanno, intrecciandosi alle mille occasioni di conflitto e
contestazione, allargato e praticato una costruzione di senso, hanno
costruito una narrazione capace di permettere a milioni di uomini e donne di
irrompere nella scena globale e di porsi al suo centro. Su tutto questo
perché questo è il punto centrale - siamo chiamati e chiamate e ragionare
noi e l¹intero movimento italiano.

E’ anche questo, come quello globale, un movimento dei movimenti nel senso
di essere pieno di differenze, anche di contraddizioni, ma che è anche stato
capace per lungo tempo di costituire uno spazio pubblico di confronto e di
contaminazione, uno spazio di democrazia, di fare delle proprie differenze
la più forte delle risorse. Oggi ad essere in crisi è proprio il modo con
cui quello spazio pubblico si è organizzato o ha cercato di rendersi
riproducibile. La crisi dei social forum territoriali, la loro regressione
allo stadio degli intergruppi precedente al passaggio di Genova delle
identità giustapposte e forgiate su di una storia precedente e in gran parte
mutata rispetto all’oggi, è la stessa crisi che fu del GSF, oggi gruppo di
continuità del FSE. E’ in questa crisi che si collocano anche altre crisi.

Noi, il movimento delle e dei disobbedienti, siamo uno dei movimenti che
fanno e hanno fatto l’insieme del movimento non come risultato di una somma
algebrica, ma come determinazione molteplice di uno spazio pubblico/politico
qualitativamente, oltre che quantitativamente, nuovo. E questo movimento nel
movimento non è stato e non è una piccola ed insignificante componente, non
è mai stato un gruppetto chiuso o isolato. E’ stato anzi, spesso, capace
come il movimento complessivamente ha fatto nel paese, di collocare la
propria specificità al centro del dibattito collettivo. Oggi, di fronte allo
schiudersi di una nuova fase e dentro ad un passaggio pieno di difficoltà,
abbiamo bisogno di fermarci a riflettere e a guardare la strada percorsa per
vedere quella che ci sta davanti.

La strada percorsa ci dice molte cose. Siamo quelle e quelli di Genova, di
una nuova generazione politica più che anagrafica che ha cominciato a
costruire, o meglio ri-costruire, la propria identità sul terreno della
radicalità e del conflitto. Abbiamo imparato e sostenuto che non c’è
conflitto reale senza consenso e che non c’è consenso, attivo e consapevole,
senza conflitto. E’ questo che abbiamo praticato. Lo abbiamo fatto diversi
ma insieme, imparando e cambiando molto. Lo abbiamo fatto violando le zone
rosse che per noi sono prima di tutto la forma che assume un potere che non
immaginiamo più concentrato in un qualunque palazzo di inverno. Ma sempre,
convinti della potenza costituente del movimento e della sua costitutiva
tendenza alla trasformazione, procedendo per affermazione e non per
negazione. Di pratiche, di contenuti, di relazioni, di senso.

Per questo sentiamo la necessità di aprire tra noi e anche fuori di noi, un
confronto serrato sulle prospettive che abbiamo di fronte. Un confronto vero
dove le differenze tornino a essere ricchezza. I disobbedienti sono il
risultato di un incontro tra diversi dove - questo sia affermato una volta
per sempre non esistono marchi doc.- non ci sono i giovani comunisti e i
disobbedienti, non ci sono i politici e quelli del movimento ma si
confrontano disobbedienti e disobbedienze su opzioni e progetti politici.
Non c’è tra di noi l’opposizione tra militanti di partito e attivismo
"libero" dal partito, c’è una tensione che investe chiunque militi in
esperienze organizzate che in questo spazio si incrociano, e oltretutto ci
sono tante singolarità che non "appartengono" ad alcuna e che bisognerebbe
rispettare senza schiacciarle invece in una dialettica tra schieramenti di
"organizzati". Ci sono tanti modi di essere "partito", e non è detto che
quelli non formalizzati siano i migliori. Non è dunque vero che c’è un
problema di "doppio livello" che investe solo le/gli iscritti ad un partito
nazionale: c’è un problema di progressiva messa in discussione delle
appartenenze originarie ,che deriva proprio dalla novità condivisa di questo
spazio politico della disobbedienza, come è in generale per lo spazio del
movimento di movimenti. O almeno, così ci è sempre parso: che l’assunto
dell’insufficienza rispettiva fosse alla base della condivisione di questo
comune politico che è uno spazio nuovo di sperimentazione nella ribellione

Il documento scaturito dall¹incontro di alcune articolazioni del movimento
dei disobbedienti il 5 ottobre scorso all¹indomani della manifestazione di
contestazione alla Conferenza Intergovernativa Europea, pone soprattutto una
serie di nodi politici ed è su questo, prima ancora che sul metodo che
intendiamo esprimere un punto di vista e un contributo alla riflessione
collettiva. Il documento, ci pare, affronta mettendoli al centro del
ragionamento tre temi: il rapporto con l¹insieme del movimento e dei
movimenti, il rapporto tra la dimensione dell¹autonomia sociale e la
politica e il tema da sempre centrale per noi delle pratiche.

1) il rapporto con il movimento e con i movimenti

Abbiamo scoperto, in un recente passato, di aver confuso lo spazio della
rappresentanza del movimento (dal quale noi non siamo estranei) con il
movimento quando a Firenze ci siamo rinchiusi in un luogo separato per poi
scoprire, restando ad occhi aperti, una moltitudine capace di esondare ogni
argine immaginabile. Oggi, ci sembra, corriamo un rischio simile. Eppure ciò
che ci ha caratterizzato e che ha fatto della nostra una nuova esperienza, è
stato il tentativo costante di collocarsi e pensarsi in uno spazio capace di
andare oltre noi come unico orizzonte dell¹iniziativa. Abbiamo oggi il
problema di ripensare lo spazio pubblico del conflitto a livello nazionale e
soprattutto sui territori, siano essi metropolitani o meno.

Abbiamo criticato gli anni della concertazione sindacale e della pace
sociale rivendicando la connessione tra le lotte dei lavoratori e delle
lavoratrici e le lotte del precariato sociale nel contesto della
globalizzazione e ponendo per primi il tema della generalizzazione dello
sciopero intrecciando alla nuova definizione dei soggetti il tema delle loro
pratiche di conflitto sul terreno sociale. Abbiamo riconosciuto e cercato
di costruire, se pur in forma isolata e insufficiente, una relazione diretta
con situazioni concrete di lotta e con il vissuto di soggetti sociali con i
quali fino a quel momento nessuno si immaginava nemmeno di poter comunicare
come nella vicenda di Termini Imerese e più in generale della vertenza Fiat.

Mai abbiamo considerato efficace ridurre la nostra radicalità e la nostra
critica ad un confronto ristretto alle direzioni sindacali o al loro
carattere burocratico. Oggi, di fronte all’apertura di un ciclo di lotte
segnato dallo scontro annunciato sulle pensioni che troverà una prima tappa
nello sciopero generale del prossimo 24 ottobre e dallo sciopero della Fiom
che mette al centro, senza il sostegno di Film e Uilm, il tema decisivo
della democrazia sui luoghi di lavoro dovremmo, piuttosto, discutere a fondo
di come ridefinire il terreno della generalizzazione e quindi, di come
massimizzare l’impatto di conflitto del precariato sociale dentro questa
relazione.

La generalizzazione rende visibile le esperenze di autorganizzazione del
precariato sociale, e ci permette di svelare nuovi possibili percorsi. Ma
dobbiamo assumere fino in fondo che, ad oggi, il precariato sociale non è
emerso significativamente come soggettività di lotta e d¹iniziativa.

2) Il rapporto tra la dimensione dell¹autonomia sociale e la politica

Il movimento tutto nella sua stessa natura e noi per la nostra di
laboratorio e di ricerca antidogmatica, abbiamo avanzato una radicale
critica della politica e delle sue forme di rappresentanza e di
organizzazione. La capacità di mettere allo scoperto il nodo della
legittimità e quello della partecipazione ha fortemente caratterizzato la
novità del movimento globale e delle sue articolazioni.

Con l¹esperienza zapatista abbiamo interpretato la centralità della
partecipazione e introdotto il ragionamento sul ruolo possibile del nuovo
municipio e abbiamo provato ad intrecciarli al tentativo di sovvertire la
forma gerarchica e verticale dell’organizzazione a favore di una costruzione
di rete fatta di espressione viva di esperienze e di conflitti sociali.

Il movimento ha lungamente spiazzato la politica perché l’ha investita fino
in fondo, senza limitarsi ad una relazione di tipo lobbistico e smascherando
ogni sua pretesa di separatezza o di impermeabilità. E’ stato capace di
portare così a fondo la sua critica da leggere correttamente la crisi della
democrazia che ha caratterizzato l’ultimo conflitto in Iraq.

Non è possibile, né tantomeno efficace proporre una nozione di autonomia
sociale che mostra la massima e più sostanziale subalternità a quella,
contestata, di autonomia del politico. L’autonomia e l¹autorganizzazione
delle lotte e dei percorsi di liberazione è costruzione viva di politica:
anzi, la costruzione di una condizione d’autonomia nella riconquista della
politica nel senso più alto, quello della trasformazione.

Così, con una scommessa per niente scontata negli esiti e che sollecita alle
fondamenta tutte le nostre rispettive identità di provenienza, e senza la
quale non sarebbe nemmeno nato il Carlini e poi il percorso dell’area della
disobbedienza, dobbiamo ancora rispondere al rischio di ritorni della
"vecchia politica", cioè della separazione e della cooptazione operate sul
consenso attivo creato dai movimenti: rischio che vediamo tutti, perché
nessuno di noi intende subire l’indicazione di un "destino" istituzionalista
per i movimenti stessi, affinché conseguano "risultati".

La scommessa con cui rispondere all’evocazione di simili rischi non è quella
di ritirarsi in una presunta autonomia sociale, ma al contrario di voler
essere "politica", praticata differentemente ed in relazione diretta, con le
lotte e le soggettività che esse esprimono. Essere nuovo spazio pubblico,
nuovi ribelli protagonisti della scrittura d’un nuovo vocabolario della
trasformazione, dunque della politica, ecco qual’era la scommessa su cui ci
siamo incontrati e che tanti ha attratto: davvero pensiamo che in due anni e
di fronte alla prima tornata elettorale significativa, questa scommessa
possa considerarsi sconfitta?

Abbiamo la necessità, al contrario, di immaginare una relazione dinamica tra
la dimensione sociale e quella politica.

3) Il tema delle pratiche

E¹ un tema questo su cui abbiamo concentrato da sempre la nostra attenzione.
Lo abbiamo fatto, ognuno con il suo bagaglio di esperienze e di culture,
convinti che questo argomento non fosse di interesse esclusivo di una
componente, magari giovanile o estremista ma di tutto il movimento. Più
chiaramente convinti, o almeno noi ne siamo convinti, che la riflessione
creativa sulle pratiche rappresentasse uno degli elementi più innovativi e
caratterizzanti di un movimento, quello globale non leggibile attraverso le
lenti del novecento.

Sono anche le pratiche che costruiscono identità per questo flessibili ,
e che danno vita ad un processo di identificazione col movimento nella sua
complessità. Le donne e gli uomini che non credono alla favola della fine
della storia, pur non partecipandovi direttamente, assistendo alle lotte del
MST in Brasile, a quelle delle donne di Cancun, alle centinaia di
interposizioni dal basso che si sono costruite in medioriente, hanno sentito
quelle pratiche dentro di sé, cominciando a percepire un senso di
cittadinanza globale.

In Italia, il ruolo della pratica sociale del movimento e in particolare
della disobbedienza rifiuto e rovesciamento della macchina di violenza che è
la macchina del potere è stato anche e soprattutto quello di ridefinire in
forma nuova il rapporto tra teoria e pratica, tra discorso politico e
partecipazione intervenendo, in modo dirompente, su una tendenza sempre più
diffusa ad immaginare la politica come vicenda separata, consegnata a
tecnicismi e specialismi e per ciò stesso condannata a vivere solo in una
logica di delega e rappresentanza. Con questo spessore e non riducendo il
dibattito ad una questione di tecnica di piazza abbiamo affrontato anche nel
movimento questo dibattito.

Abbiamo giustamente letto la questione della violenza come terreno
privilegiato del potere, come prodotto naturale e diffuso di questa
globalizzazione. A Genova in migliaia abbiamo sfidato la zona rossa per
disvelare la violenza dei potenti per rendere, come dicemmo con efficacia,
il Re nudo. Così abbiamo costruito le iniziative contro i CPT dalla prima,
efficace, a l porto di Trieste all¹ultima straordinaria di Bari Palese
passando per lo smontaggio di Via Mattei a Bologna. Così abbiamo intralciato
e rallentato i treni della morte, invaso aeroporti militari e bloccato
strade e stazioni durante il Trainstopping.

Li, pur con tanti limiti abbiamo misurato non un consenso di testimonianza
ma un consenso attivo che ha fatto di quella esperienza un momento in cui la
disobbedienza e stata in parte praticata e certamente condivisa a livello di
massa. Così ancora si sta facendo con l¹esperienza di Action a Roma, vera e
propria dimostrazione della possibilità di declinare la disobbedienza come
disseminazione e moltiplicazione sociale di pratiche radicali. Non è forse
un caso che questa esperienza ottenga questi risultati perché interviene
direttamente sul terreno dei diritti fondamentali la cui soluzione si pone
per migliaia di persone come esigenza immediata.

In tutti questi casi, la radicalità non si è misurata sull¹intensità
dell¹evento ma sulla sua relazione, diretta e immediatamente comprensibile
con diritti negati e bisogni sociali.

La nostra capacità di sottrarci alla violenza come scelta di fondo si è
definita nella convinzione che la violenza e il suo monopolio stiano
dall¹altra parte. Nella convinzione che l¹altro mondo possibile, qualunque
sia passa per la rimozione della violenza dalle relazioni sociali e, nel
nostro caso e nel nostro contesto, dalla convinzione dell¹impossibilità di
conservare un rapporto tra conflitto e consenso, se pur nella sua dimensione
processuale, senza impedire che le nostre pratiche e le nostre scelte siano
anche soltanto percepite come ambigue su questo terreno. Oggi, in un epoca
in cui sembra normale che alle riunioni sull¹ordine pubblico partecipi il
Generale Tricarico e soprattutto dove il trattato di Amsterdam si appresta,
con l¹avallo della commissione presieduta da Romano Prodi, a rendere
operativa una serie di normative che fanno del conflitto sociale e politico,
come categoria, un fenomeno terroristico (le denunce ad Action e ai
disoccupati organizzati di Napoli per Associazione a delinquere finalizzata
in un caso a delitti contro il patrimonio immobiliare e nell¹altro
all¹estorsione la dicono lunga) abbiamo più di prima la necessità di
ragionare a fondo sulla questione della repressione. Dobbiamo farlo noi e
dobbiamo pretendere da tutto il movimento e dalle forze politiche una
attenzione e una capacità di intervento che troppe volte sono mancate o sono
risultate insufficienti.

E¹ in questo quadro, e in tutta la sua complessità che si pone, anche per
noi il dibattito sul rapporto tra violenza e non violenza. Sappiamo bene che
nelle discussioni del movimento questo tema è stato più volte agitato più
come uno spettro che come reale e impegnativo terreno di ragionamento e di
confronto. Sappiamo che, si è spesso cercato di sovrapporre questa
discussione a quella da noi più volte posta del rapporto tra legalità e
illegalità. Sappiamo ancora, che più di una volta questa discussione è
servita per nascondere la tendenza di molti settori del movimento a
escludere a priori ogni pratica attiva per quanto non violenta negli
appuntamenti di contestazione. Ci ricordiamo come durante il Trainstopping
molti soggetti intorno a noi abbiano cercato di escludere quella pratica
dalle ³scelte del movimento² utilizzando come una clava la banalizzazione di
questo dibattito. Sappiamo infine, che non c¹è violenza più grande della
guerra o delle politiche che costringono alla morte per fame o malattie
milioni di persone. Sappiamo tutto questo eppure tutto questo non basta a
risolvere il problema ne permette di eluderlo.

Non è possibile eludere il problema della dimensione di massa, tutt¹altra
cosa dalla massificazione, della disobbedienza e della pratica possibile
dell¹illegalità rifuggendo in uno schema tipico di quella vecchia politica
che ci diciamo di voler radicalmente trasformare come quello
dell¹avanguardismo. Non è possibile, rischiare, in un contesto come quello
del 4 ottobre di offrire noi per primi, a Gianni De Gennaro, la possibilità
di presentarsi ripulito dalla macelleria di Genova.

Eppure anche in questo caso ci avevamo provato. Avevamo tentato di
recuperare quella vocazione allo spiazzamento che aveva segnato come
elemento caratterizzante l¹intelligenza della disobbedienza, la sua forza di
impatto, la sua capacità comunicativa, la sua efficacia. La presa di parola
e di spazio delle donne, pur nei limiti di ogni tentativo nuovo, ci pareva
un segnale, l¹aprirsi di una possibilità. Si è fatta, invece, un¹altra
scelta, incomprensibile e sbagliata.

Ma l¹attraversamento del passaggio del 4 ottobre, con il suo carico di
tensione e con i suoi pesanti strascichi giudiziari, è anche il risultato di
un problema non risolto e da molto tempo posto. Il tema del chi decide cosa,
lungi dall¹essere questione burocratica o inessenziale nelle relazioni
interne a qualsiasi dinamica di movimento pone un problema che attiene alla
forma e lo sviluppo della nostra esperienza collettiva. La rappresentazione
nazionale, i grandi eventi hanno costituito per lungo tempo un potente
propulsore alla crescita del movimento tutto e in particolare dei
disobbedienti. Oggi, quando la nostra rete misura una estensione e una
moltiplicazione di nodi significativa il momento centrale rischia spesso di
divenire un tappo alla crescita, un muro invalicabile alla presa di parola e
alla piena espressione di potenza di tantissime realtà. Non è possibile non
vederlo né si può rappresentare, distorcendolo, questo problema come falsa
questione o peggio come riproposizione di vecchie logiche da apparato. La
nostra ricerca deve avere la capacità d¹invertire questa tendenza.
Ricostruire e ridefinire una rete delle disobbedienze sociali, può essere
formula vuota, ma può anche essere riempita dalle concrete ed esistenti
esperienze territoriali e dalle diverse reti tematiche e di progetto, in una
differente modalità di relazione espansiva tra spazi, luoghi e soggetti
sociali che praticano disobbedienza.

Da queste considerazioni vogliamo ripartire. Perlomeno, da questo grado di
chiarezza nella nostra discussione. Senza timori, retaggio di una storia e
di una modalità di far politica vecchia e muta, di costituire con ogni
discussione una rottura, una polarizzazione o peggio di determinare
dissociazioni e scontri per l¹egemonia. Abbiamo bisogno di rilanciare una
vera e propria iniziativa costituente capace innanzitutto di disporsi come
processo includente per mille realtà e mille soggetti che oggi non
incontriamo nello spazio della disobbedienza. Abbiamo bisogno di rimetterci
in cammino, di ricominciare una ricerca consapevoli che non ci sono
scorciatoie né fughe in avanti possibili. Una ricerca che metta al centro
una riarticolazione dei contenuti e delle pratiche ma anche una dimensione
di rete non escludente. Non vogliamo riprodurre forme comunitarie fondate
sull¹esclusione di ciò che si muove fuori dal perimetro ne sulla
giustapposizione di identità precostituite ed immutabili. La contaminazione
che ci proponemmo dopo Genova e che per la verità aveva avuto inizio sei
anni prima nell¹avventura dei treni per Amsterdam funziona solo se è pensata
da tutti e da tutte come risposta necessaria alla propria insufficienza. E¹
in questa dimensione che possiamo immaginare un nuovo futuro , nuove
sperimentazioni anche più radicali e coraggiose di quelle fin qui praticate.
Il Forum sociale Europeo di Saint Denis rappresenta un primo importante
banco di prova. Non abbiamo che da provarci.

Sergio Boccadutri, Danilo Corradi, Michele De Palma, Nicola Fratoianni,
Francesco Minisci, Daniela Santroni, Gianluca Schiavon, Federico Tomasello