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Un decreto Berlusconi per una tv Berlusconi
Publie le mercoledì 24 dicembre 2003 par Open-PublishingMANIFESTO 24-12
Senza vergogna
Un decreto Berlusconi per una tv Berlusconi
NORMA RANGERI
Il presidente Ciampi aveva appena riaperto una importante, cruciale partita per la democrazia
italiana, che il presidente Berlusconi l’ha subito richiusa apponendo la sua firma in calce al decreto
che salva una televisione altrimenti fuori legge. La sua. Si tratta di circa trecento milioni di
euro (alias Rete4), un malloppo che deve restare dov’è. Se ne riparlerà tra cinque mesi. Forse,
sempre che un altro decreto non si aggiunga a spostare più in là i termini di nuovi salvataggi.
Sembra una di quelle barzellette che non fanno ridere, invece è quel che è successo ieri, a palazzo
Chigi, in quindici minuti.
La decisione del consiglio dei ministri di favorire, con un apposito decreto, il core-business di
Berlusconi, sbatte in faccia a tutti gli italiani il sigillo del Biscione e segna un punto di non
ritorno nella ventennale storia del berlusconismo. In passato, per ottenere decreti utili alle sue
televisioni, il Cavaliere doveva fare anticamera, rivolgersi all’amico Craxi che lo accontentava
volentieri. Oggi fa da sé. Altro che favola metropolitana, come l’inquilino di palazzo Chigi ha
definito, con irridente strafottenza, il conflitto di interessi. Questo è un incubo.
In quale paese civile può accadere che il capo del governo firmi un decreto ad hoc per difendere
il suo portafoglio? E da oggi con quali argomenti si impedirà ai lavoratori minacciati di
licenziamento, ma privi del privilegio di essere dipendenti di Berlusconi, di rispettare le regole anziché
erigere barricate per manifesta ingiustizia?
I telegiornali hanno battuto la grancassa delle tv da salvare, infilando nel calderone anche
Raitre e facendo grande attenzione a non dire che il governo si apprestava a varare semplicemente un
decreto Berlusconi in difesa di una tv di Berlusconi. Direttori e mezzibusti hanno ubbidito
all’ordine di scuderia dettato dal direttore generale di viale Mazzini. Flavio Cattaneo ha cantato in coro
con i ministri di palazzo Chigi agitando lo spauracchio dei licenziamenti. Così da indurre a
credere che, con Fede sul satellite, si sarebbe mortificato il pluralismo dell’informazione e togliendo
la pubblicità a Raitre si sarebbe recato un grave danno economico al servizio pubblico. Falso. La
Terza Rete con la sentenza della Corte Costituzionale non c’entra nulla, e il bollettino di
partito di Fede (che in molti insistono a chiamare telegiornale) si sarebbe finalmente potuto giovare
delle nuove tecnologie (satellite e digitale) della legge Gasparri. O sono bufale anche quelle?
La verità che sfonda il fragile muro del pudore, mostrando al «pubblico» cosa c’è dietro il
venditore di sogni, è che il decreto Berlusconi salva solo le tasche di Berlusconi, particolarmente
gonfie dopo questi primi anni di governo. Gli uomini di Mediaset hanno passato l’autunno a sventolare
gli utili da record dell’azienda di famiglia (362 milioni di euro nello scorso anno, un incremento
pubblicitario ancora nel 2003) e con la legge Gasparri si preparavano a festeggiare il regale
bottino. Il presidente della repubblica gli ha tolto il boccone di bocca, ma la famiglia non si è
persa d’animo.
Altro che licenziamenti e dipendenti senza il panettone. Colpire anche solo un anello della catena
Mediaset, come sarebbe accaduto rendendo esecutiva la sentenza della Corte, avrebbe interrotto il
ciclo economico dell’unica macchina televisiva europea capace di accumulare una vertiginosa
rendita. Forse era questo che l’ex presidente del consiglio, Massimo D’Alema, intendeva quando, per
rassicurare l’avversario sulla sua politica di buon vicinato, disse che Mediaset era «una ricchezza e
un valore del paese».