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Viaggio in un movimento che resiste

Publie le martedì 20 gennaio 2004 par Open-Publishing

Una delegazione del Social forum attraversa i villaggi dell’India rurale lungo le sponde del fiume Narmada, da Sardar Saromar a Madhuri Ben.

Una delegazione del Social forum attraversa i villaggi dell’India rurale lungo le sponde del fiume Narmada, da Sardar Saromar a Madhuri Ben. E scopre la difficile lotta del movimento di resistenza dei rurali «Narmada movement», tra le dighe che incombono e il governo che promette rimborsi

MEENA DESAI MUMBAI (BOMBAY)

Dal barcone che lentamente risale il tratto finale del fiume Narmada, ormai trasformato in grande lago per via della famosa mega-diga (la Sardar Sarovar, che non smette di crescere poco più giù) si vede chiaramente la striscia scura che segna il livello di massima capienza ad ogni monsone. E soprattutto quest’anno che il monsone è stato generoso, molti villaggi hanno dovuto sloggiare, per l’ennesima volta. Domkedi, Jalsindhi, Nimgavan. C’era un’epoca in cui stavano dove adesso è fondo-lago, meta di pellegrinaggi per via del tempio di Hapeshawar, all’ombra di alberi altissimi che adesso vedi emergere dall’acqua: la sommità della cupola, qualche spoglio ramo. Era solo una settimana fa e per noi che avevamo aderito al «rural trip» preliminare al Social forum, proposto all’ultimo momento dalla Napm (l’alleanza di movimenti, tra cui anche il Narmada Bachao Andolan) era solo l’inizio di un viaggio emozionante nel cuore dell’India dei villaggi. Villaggi raggiungibili solo in barca oppure a piedi, dentro valli che persino le jeep faticano a raggiungere: l’India che vagamente esiste solo sulle mappe e ancor meno per i censimenti, l’India che dovrà sparire. L’India che resiste, in qualche modo. Ad ogni monsone i villaggi si spostano più su, ricostruire capanne di paglia e argilla non è poi così drammatico. Più difficile spostare i campi e l’agricoltura che un tempo fioriva dove adesso è fondo lago. E per fortuna che quella dei tribali non è un’economia di mercato: coltivano e allevano quel che basta per vivere. Il problema è che non saprebbero vivere che qui. Dai faraglioni, ad ogni nuovo villaggio, è un delirio di fiori e ghirlande e slogan gridati per festeggiare l’arrivo di Medha didi («sorella») e di tutti noi che viaggiamo insieme a lei. «Aamu aakha» è il richiamo rauco di qualcuno cui tutti quanti rispondono fino a sgolarsi «Ek se». Uniti si vince. O anche: «Hamare gaon mein amari raj», «Autogoverno nel nostro villaggio». Facce scure, turbanti, pugni chiusi contro il blu del cielo: sembra un film, un John Ford nell’India dei tribali e su copione di Gramsci.

A Ningavam ci accoglie una processione di bambini in frenetica danza al suono dei tamburi. Nella cerimonia che segue qualcuno ricorda che fino a quando non cominciò il movimento per la difesa del Narmada, ovvero fino alla metà degli anni `80, da queste parti non si sapeva neppure che cosa fosse l’India. Una volta all’anno arrivava un tizio con la bandiera tricolore e diceva che era il 15 agosto, anniversario della dichiarazione d’indipendenza: e quello era l’unico contatto che i villaggi avevano con la cosiddetta nazione. Niente scuole, strade, sussidi, men che meno cure mediche. Nel villaggio più grande di Bilgaon, che raggiungiamo parecchio più tardi dopo una lunga scarpinata al chiaro di luna, la scuola è arrivata solo l’anno scorso e ora serve 17 sub-villaggi. Fa impressione rivedere la mattina dopo gli stessi bambini che ieri ci danzavano intorno, tutti in divisa hindutva style, camicia bianca e pantaloni caki. Lungi dal rassegnarsi alla minaccia dell’inondazione, Bilgaon si è recentemente dotato di un proprio sistema di micro-produzione energetica: una mini-diga, costruita con l’aiuto di alcuni ingegneri di Bangalore, che assicura la luce in tutto il circondario al costo di 10 Rs (25 centesimi, al mese) per neon. Nulla in confronto alle 300 Rs dell’attuale canone post-privatizzazione, e che sembra la miglior conferma dello slogan «Uniti si vince». Ma non è così. Seppure uniti, nonostante l’eccezionale seguito mediatico che grazie al coinvolgimento di personaggi come Arundhati Roy la resistenza di questi villaggi ha ricevuto, quella della Nba è una battaglia persa. Ridotta ai minimi termini dalla contrattazione con i vari Palazzi del potere, cui i villaggi si rivolgono nella speranza di vedersi assegnate terre equivalenti a quelle che verranno inondate o strappare il massimo dell’indennità.

La diga ha ormai raggiunto i 100 metri di altezza, altri 10 se ne aggiungeranno per velocizzare le esigenze di industrializzazione in Gujarath. A rischio inondazione non sono solo le aree tribali. A poca distanza da qui, le terre tra Kakrana e Badwani fertilissime e magnificamente coltivate rischiano di fare la stessa fine. A Chota Barda, dove trascorriamo la notte appena fuori Badwani, veniamo informati che 2/3 del villaggio hanno già capitolato e sono in trattative per le stipule di indennità. La polizia è venuta più volte, con la forza ha cercato di costringere tutti gli altri: ci sono stati episodi di violenza, sanguinosi pestaggi, minacce. Prima o poi, è «logico», cederanno tutti.

Il glorioso, ventennale «Narmada movement» si è ormai ridotto dunque a «graduare» la sconfitta? Duro ammetterlo e infatti i leader locali non lo ammettono: l’Nba ha avuto i suoi alti e bassi, e questo è il momento più basso, ma l’esperienza del movimento resta, l’eredità delle lotte etc etc, le cose che si dicono per tenere alto lo spirito quando tutto il resto crolla. Consumiamo un crescendo di colazioni in ben tre diverse case, una più ospitale e incredibile dell’altra: la vacca e il vitello nell’angolo accanto alla cucina, il living più elevato e spazioso per accomodare anche la panca a dondolo, pareti letteralmente tappezzate di divinità, una meraviglia di pop-India. Poi arriva la polizia, vuole sapere chi siamo: che ci fa una comitiva di turisti in un posto come Chota Barda? Si fa finta di niente, si parte al volo con le jeep. Prossima tappa le sperdute vallate di Patti a 4 ore di scossoni da Badwani.

Una successione di profili montagnosi, un tempo verdeggianti di foreste di teak, e ridotti all’attuale desolazione dal sistematico saccheggio prima degli inglesi, poi degli stessi indiani. Paesaggio da mozzare il fiato: per la lunare bellezza e l’irreparabilità dello scempio. A supportare la resistenza delle popolazioni tribali che vivono sparsi lungo questi crinali, è arrivata fin quassù una certa Madhuri Ben. Cittadina di Delhi, giovane, colta, sensibile. Ha deciso di trasferirsi in questo fazzoletto di terra ultimamente minacciato da un progetto di miniera di calce. Minerale tra i meno preziosi che esistano, a parte la proprietà di fare peso (per esempio nelle confezioni di detergente). Ma a parte l’illegittimità di quei contratti incomprensibili, fatti circolare tra i locali dall’industrialotto locale di turno, i tribali sono da tempo impegnati nel recupero delle loro terre e risorse, e nell’ambizioso progetto di riattivare le falde acquifere. E i filoni di calce sono come vene nel corpo umano, vettori di assorbimento per l’acqua che si raccoglie negli avvallamenti coi monsoni. Marciamo fino alla piccola diga costruita poco più su: budget irrisorio, lavoro prestato gratis dalla comunità, prototipo di altri 18 simili reservoir. Una sfida all’incuria dell’uomo, la scommessa sulla possibilità di riforestare un territorio ormai completamente spoglio. Ma a che prezzo? A parte la difficoltà di coordinare gli sforzi (e su un’estensione territoriale scoraggiante, percorribile solo a piedi, senza alcuna ombra di copertura telefonica), c’è da combattere ogni giorno. Per aver ostacolato il transito del primo camion di calce, qualche mese fa, i tribali di Madhuri Ben sono finiti in galera per 17 giorni. Erano talmente tanti che hanno riempito anche la prigione del distretto più vicino. Per fortuna uno di loro è riuscito a scappare e il giorno dopo a difendere l’imbocco della miniera c’erano tutti i villaggi della valle, compatti. Come andrà a finire non si sa.

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