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Chiapas: ferite gravemente due persone basi d’appoggio dell’EZLN

Publie le giovedì 15 aprile 2004 par Open-Publishing

Dazibao


di Costanza Alvaro e Flavia Anconetani

Il 10 aprile 2004, 85° anniversario della morte di Emiliano Zapata, la municipalità autonoma
della zona Altos dello Stato di Chiapas ha organizzato una marcia pacifica con
lo scopo di non lasciare sola la popolazione di Zinacantàn nella sua resistenza.
Dal mese di dicembre le famiglie basi d’appoggio di questo municipio sono state
private del diritto basico all’acqua, per il solo fatto di appoggiare la causa
zapatista.

Ci siamo uniti ai convogli alle 10 a Zinacantàn. Eravamo circa 150 camionette,
che caricavano più di 4000 zapatisti e trasportavano svariate migliaia di litri
d’acqua destinate alle comunità di Jech’vò e Elambò. Noi internazionali superavamo
appena la decina.
Lì è stato letto il comunicato diretto alla presidenza municipale: "Vogliamo
che capiate che stiamo lottando per il bene di tutti i popoli, indigeni e non,
lottiamo per il futuro dei nostri figli (...). La nostra lotta non è come il
lavoro di un presidente municipale, che, quando termina il suo mandato, se ne
va con i suoi bei milioni di pesos, mentre il suo popolo resta nelle stesse condizioni,
se non peggiori.

Così la vita dei popoli continua a peggiorare e anche se cambiano i partiti,
la situazione non cambia." La lettera non e’ stata consegnata: i compas si sono
sentiti dire che il sindaco non c’era.
Partiamo in direzione di Jech’vo: attraverso un bivio della strada Panamericana
che da S. Cristòbal arriva a Tuxtla imbocchiamo un cammino lungo, sterrato, lo
stesso in cui di lì a poco si sarebbe armato l’agguato a tutti quelli che stavano
manifestando il loro rifiuto all’umiliazione e all’ingiustizia, la loro lotta
contro l’eterna legge della supremazia arbitraria del potere.
L’incontro si svolge nella piazza della chiesa.
L’organizzazione è impressionante: sono tantissimi i partecipanti, provenienti
da comunità anche molto distanti tra loro.

I comunicati vengono letti in castigliano, poi in tzotzil; sul chiosco della
piazza si alternano i rappresentanti delle municipalità autonome della zona Altos.
Siamo pronti a tornare, ma la lunga fila di macchine non si muove; forse c’è un
intoppo, forse i camion stanno facendo manovra. Aspettiamo. Dopo poco iniziano
ad arrivare le prime voci, i primi allarmi: un compagno zapatista dice che poco
più avanti, sulla strada che avevamo appena percorso, i pierredisti della stessa
comunità stanno creando il desmadre, il panico. Così scendiamo dalle macchine
e andiamo a vedere.
Lo spettacolo è sconcertante. Un gruppetto di pierredisti, anche loro indigeni,
anche loro poveri, per lo più contadini, sta bloccando l’unica strada con grandi
pietre e tronchi d’albero.
E’ chiaramente una provocazione. Una distanza di cento metri separa i due schieramenti:
pochi metri, un abisso.

Gli zapatisti mantengono la calma, osservano, discutono.

I pierredisti insultano e soprattutto ci impediscono di muoverci, di avanzare
verso l’uscita.
Sempre più compas arrivano correndo. Che possiamo fare? Come si può uscire dall’agguato
senza accettare la provocazione? Si aspetta ancora. Passa del tempo. Mentre i
pierredisti vanno aumentando, due pick-up della polizia fino a quel momento rimasti
fuori Jech’vò, si posizionano dietro la barricata, rafforzandola. Alla fine si
decide; è un attimo, come un’ondata andiamo avanti, tutti insieme. La polizia
scappa per la collina: non c’è la minima volontà di intervenire per garantire
l’ordine, per proteggere le persone costrette a difendersi a colpi di sassi,
a scappare, a correre. I compas rompono le barricate, togliendo i sassi e spingendo
giù le auto della polizia, fino a ribaltarne una e a distruggere l’altra, aprendo
il passaggio alla carovana che lentamente si incammina cercando di guadagnare
la strada principale. Poi si sentono i primi colpi, inizialmente petardi sparati
a altezza uomo.

Il corteo avanza lentamente: non c’è altra via d’uscita oltre a questa stradina.

L’unica biforcazione è stata bloccata da un enorme tronco d’albero; è sempre
più evidente che si tratta di un vero e proprio agguato, un’imboscata. Si sparge
la voce che c’è bisogno di aiuto alla coda del corteo, perché i compagni rimasti
indietro sono attaccati con armi da fuoco. Si cerca, urlando, assistenza medica.
Il corteo si sposta su un lato della strada per far passare i primi feriti; le
donne riempiono i camion con i bambini aggrappati alle spalle e un sasso stretto
forte in ogni mano; le lacrime brillano dietro il passamontagna. Quando finalmente
riusciamo a raggiungere la Panamericana la polizia è lì a dirigere il traffico
e a scattare foto agli internazionali, la croce rossa è ferma su un lato della
strada.
Ciò che stava succedendo è stato volutamente ignorato: non è stata affrontata
l’emergenza, né era stata presa nessuna misura cautelare per evitare quello che è stato
un attacco organizzato e che avrebbe potuto trasformarsi in massacro.

Nella conferenza stampa di lunedì 12 si è parlato di aggressione istituzionalizzata,
di disattenzione premeditata da parte del governatore del Chiapas, Pablo Salazar,
e del presidente municipale Martìn Sànchez. I camion riporteranno a casa tutti
i partecipanti alla marcia di solidarietà. Ma per i compagni che vivono a Jech’vò non
c’è strada, non c’è casa dove possano sentirsi al riparo. Durante la notte le
aggressioni sono continuate nelle comunità Jech’vò, Elambò alto e Elambò basso
nei confronti di 125 famiglie basi d’appoggio zapatiste (circa 500 persone),
che sono state costrette ad abbandonare le loro case, dove difficilmente potranno
tornare adesso.

15.04.2004
Collettivo Bellaciao