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I VENTITRE GIORNI DELLA CITTA’ DI ALBA, di Beppe Fenoglio
Publie le sabato 24 luglio 2004 par Open-PublishingDazibao Libri-Letteratura Storia Enrico Campofreda
di Enrico Campofreda
Eccola la Resistenza che meno piaceva a taluni resistenti. Umanissima, senza
retorica, con tanti limiti e contraddizioni, fatta di momenti oscuri, antieroici,
addirittura meschini. Perché oscuro e meschino era anche qualche patriota. Fenoglio
scrittore non lo nasconde, non è nella sua indole di rude langarolo. Dice quel
che pensa, senza peli sulla lingua né autocensure letterarie. Può farlo, è stato
partigiano, di quelli che non dovevano fare i conti con l’apparato ideologico
e politico. E tale è rimasto da intellettuale, paladino della verità e forte
d’una scrittura eccezionale: precisa e bruciante.
Il suo è un partigiano diverso dal politicamente corretto, un combattente pieno di tentazioni. Già nell’esordio del primo capitolo va in scena l’anomalìa. A chi sarebbe mai venuto in mente di celebrare la fama dei patrioti che sfilano nella città appena presa con una paragone sportivo? Solo a quel cantore e narratore e fantasista della parola che fu Giuànbrerafucarlo. "Sfilano i badogliani con sulle spalle il fazzoletto azzurro e i garibaldini col fazzoletto rosso, e tutti, o quasi, portavano ricamato sul fazzoletto il nome di battaglia. La gente li leggeva come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti; nomi romantici e formidabili…". Dinamite, Rolando ma anche Negus, Bimbo, Colonnello e un meno eclatante Biagino.
Ma al di là della parata c’è la cruda realtà d’ogni giorno, quella che vide molti combattenti eclissarsi di fronte all’offensiva nemica ("Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero il duecento il 2 novembre dell’anno 1944") o discutere sulla sorte d’un prigioniero quando questi fa per fuggire e viene steso da una raffica ("Il sergente fece un grande scarto e voltandosi partì verso il torrente. Negus fece la raffica, il sergente cadde rigido in avanti come se la trappola nascosta nell’erba gli avesse abbrancato i piedi. Colonnello scoppio a piangere e diceva a Negus: Perché gli hai sparato? Ci poteva venir buono, facevamo dei patti").
Il romanzo è strutturato in racconti, tutti vissuti in ambiente langarolo, e alcuni finali collocati cronologicamente nel dopoguerra, a conflitto terminato ma non dimenticato. Lì compaiono anche intrecci con tanto di colpi di scena come si trattasse di micro gialli che riproducono, comunque, storie vere di difficoltà sociale e disagio personale ("… da sotto il materasso tirò fuori la pistola. La guardò, se la mise sotto il giubbotto e uscì per andare a lavorare"). ("Camminava già nell’acqua al ginocchio ed avanzando raccoglieva ancora pietre sott’acqua e se le cacciava in seno grondanti. Arrivò tutto curvo dove più forte era la corrente che portava all’acqua verde").
In taluni vengono messe in luce manìe militariste: il culto dell’arma e la furbizia con cui Sgancia approfitta della "recluta" partigiana Raoul per accaparrarsi la di lui pistola in cambio del suo ferrovecchio. E il neo partigiano acconsente a pagare quel tributo al "nonnismo". O il lugubre sorteggio per chi deve rafficare il nemico dopo la sentenza emessa ("Allora spari chi vuole, giocatevela a pari e dispari, non sparatevi solo tra voi due!").
E ancora un capo partigiano, Marco, che nei tempi morti è intento ad amoreggiare con una ragazza piuttosto che pensare a tattiche militari o ai piani politici ("C’era un tavolo e sopra una ragazza che fece appena in tempo a serrare le gambe e mandar giù le sottane. C’era pure un uomo che si stava abbottonando la brachetta").
C’è chi fa il partigiano dietro casa ("Vado ad arruolarmi col famoso Marco, sarò appena a quindici chilometri da casa. Ciao mamma, ho un debito di sessanta lire al caffè della stazione. Fa il piacere, pagamelo"). Alla faccia del mammismo dei giorni nostri, siamo di fronte a ragazzi mantenuti e scrocconi che prendono la lotta per un diversivo da assolvere dietro le colline note per falò e feste sull’aia.
Però la vita era dura per tutti e prima di beccarsi la raffica del nemico bisognava fare i conti con le bassezze del quotidiano: il ronfare ("i respiri e il russare degli uomini coricati sembrano venire da sottoterra"), la materia scatologica ("si sentì un forte plaff! Raoul si parò la faccia con la paglia perché aveva sentito gli schizzi prendere il volo").
E la realtà e il sogno si mescolano ("Ho sognato che t’hanno ammazzato. La repubblica lì fuori sull’aia. Parola d’onore che t’ho sognato"). Ma di fronte all’infamia più grave, il furto, non c’è salvezza né pietà neppure per i vecchi compagni. Anzi, a loro si richiede un comportamento irreprensibile, pena - come accade al navigato Blister - di finire al muro dopo il pestaggio di rito da parte di tutti i componenti della banda. Eppure lui, da esperto filibustiere, spera fino in fondo di farla franca. Crede gli si proponga la finta esecuzione, quella che talvolta veniva usata per stordire psicologicamente chi la subiva, coscritto o nemico che fosse. A Blister andò male perché l’aveva fatta grossa, il comando non poteva sputtanarsi davanti ai contadini, tanto solidali per le derrate.
Si fa cenno anche a gesti terribili che qualche partigiano fece mutuandoli dalle sadiche abitudini saloine ("C’è un partigiano dei nostri che ha preso uno di loro e prima di finirlo gli ha cavato gli occhi. Io so che il fatto è capitato, ma non c’entro"). Questo coraggio intellettuale con cui non si cela nulla, anche qualche isolata infamia, non fa venire meno la ferma coscienza antifascista e antimonarchica ("- Monarchici le balle - ripeté Kin. Il tuo re è uno schifoso vigliacco, è il primo traditore … Se aveva un po’ d’onta, veniva a fare il partigiano con noi o almeno ci mandava quel puttaniere di suo figlio… ".
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.
Beppe Fenoglio (Alba 1922/Torino 1963), scrittore italiano
Beppe Fenoglio, "I ventitre giorni della città di Alba", Einaudi, Torino, 1990.
Bibliografia consigliata, cfr. altre recensioni dell’autore già pubblicate.
http://www.lankelot.com
23.07.2004
Collettivo Bellaciao