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LE JOUR OU JE SUIS DEVENUE FEMME (ROOZI KHE SHODAM)

Publie le venerdì 16 aprile 2004 par Open-Publishing

Dazibao


Recensione di Enrico
Campofreda


Meno drammatico di Osama ma egualmente mesto il panorama femminile mostrato da
Marzieh Meshkini in un altro paese islamico: l’Iran degli ayatollah. Per questo
lavoro la regista è stata insignita del Premio speciale della giuria al Festival
dei Tre Continenti di Nantes nel 2000. Certo, venticinque anni di rivoluzione
coranica e di stato confessionale hanno ricevuto anche contraccolpi e rifiuto
di normalizzazione. Il terrore dei pasdaran di Komeini è ora un ricordo (anche
se angoscioso) nel Paese retto dal moderato Katahami, che ha dovuto operare concessioni
a giovani e donne, e ha attuato aperture economiche ai capitali d’Occidente.
Ciò nonostante la censura verso l’opera degli intellettuali è sempre dietro l’angolo,
se anche questa pellicola che potremo definire riformista, ha conosciuto in fase
di realizzazione ostracismi e controlli.

Le donne iraniane, dunque, continuano a soffrire come ricordano le allegoriche
storie narrate nella pellicola. Da rintracciare possibilmente nei pochissimi
cineclub rimasti in vita; visto che, già nell’anno di uscita del film, la distribuzione
l’aveva quantomeno ignorato, come accade a tante significative opere non marcate
a stelle e strisce. Ottimo l’uso di semplici
persone nelle vesti d’attore, artistica la fotografia.
Forse qualcuno rimarrà perplesso dall’idealizzazione salvifica della
merce
presente
nell’ultimo episodio, ma la coscienza anticapitalista segue sempre il processo
tecnologico. E prima di vedere quanto inquinino una lavatrice e un’automobile
si constata la comodità di non recarsi più al torrente a dorso di mulo per il
bucato.

Tre episodi mostrano tre età e situazioni femminili.

Hava è una bambina di nove anni che s’accompagna alla madre nel giorno del genetliaco.
E’ tutta presa dai giochi della sua età mentre la donna si preoccupa di coprirla
con un chador che ha la precisa funzione di segnarne l’ingresso nella società adulta.
La piccola è ignara del doppio passaggio doloroso che l’attende: l’abbandono
della spensieratezza infantile fatta di semplici e ingenui diverimenti e l’assunzione,
come futura donna, d’un ruolo subalterno e segregato in un mondo a misura d’uomo.
Il chador che la madre le procura è nero, a evidenziarne un palese lutto. Lo
scampolo di un’ora che resta a Hava per godere la felice condizione di bimba è segnato
dalla rudimentale meridiana che la madre le insegna a utilizzare.
E l’ombra lunga del piccolo ramo piantato in terra consente alla bambina gli
ultimi scambi paritari coi coetanei maschi che hanno il sapore d’un lecca-lecca.
Il sole di mezzogiorno si porta via l’età dell’oro e la madre porta via Hava
verso un destino oscuro come il lungo chador che ormai la copre.

Ahou è una giovane sposa in fuga dal marito e dai costumi islamici che all’unisono
la vogliono sottomessa. Ahou fugge sopra una bici e non è sola: c’è un folto
gruppo di pedalatrici che insegue la libertà come fosse il traguardo d’una corsa
organizzata. Metaforico impaccio all’impresa sono i chador, sempre neri, che
ciascuna indossa e che si gonfiano al vento come vele. Ma sono vele che
non danno
abbrivio anzi rallentano la corsa
e con essa il cammino della liberazione.
Però le donne - tutte giovani e determinate - vanno avanti, rincorrono un
sogno
di libertà
turchino come il Mare Arabico che appare luminoso sullo sfondo. Quando
Ahou intravede il severo marito su un tradizionale cavallo nero che la incalza
intimandole di fermarsi, preme ancor più sulle leve. L’uomo non demorde e con
lui arrivano i parenti: tutti a gridare a Ahou di tornare a casa per non disonorarli.
Ci si mettono a braccarla anche i familiari di lei, ma la ragazza prosegue caparbia
finché due arcaici cavalieri non le sbarrano la strada e la costringono a rallentare.

Houra è una vecchia che giunge in aereo e s’infila nel bazar attiguo all’aeroporto.
E’ quasi al termine della vita e vuole per sé ciò che non ha mai avuto: l’arredo
di una casa con gli elettrodomestici e i ritrovati della tecnologia che
sollevano
la donna dalle quotidiane fatiche casalinghe
. Vuole (vorrebbe) anche un figlio
mai nato, tant’è che domanda ad alcuni ragazzi che le trasportano la merce acquistata
se intendono seguirla ed essere adottati.
Questo sogno a occhi aperti, però, non s’avvera (non può avverarsi), come il
desiderio d’indossare l’abito bianco da sposa che resta intonso sulla spiaggia
appeso a una gruccia. Mentre letto, armadi, frigo, lavatrice e ogni arredo domestico
vengono imbarcati con la vecchia donna su delle zattere.
Sarà per lei forse il primo viaggio, sicuramente l’ultimo, ma il più soddisfacente
della travagliata vita vissuta. E il suo personalissimo sogno d’emancipazione.

Regia e sceneggiatura: Marzieh Meshkini
Direttore fotografia: Ebrahim Ghafuri
Montaggio: Marzieh Meshkini
Musica originale: Ahmad reza Darvish
Produzione: Makhmalbaf Productions
Origine: Iran, 2000
Durata: 78’

15.04.2004
Collettivo Bellaciao