Home > PARADISE NOW

PARADISE NOW

Publie le sabato 29 ottobre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Cinema-video - foto Luisa Morgantini

Io cerco di raccontarvelo, voi però andate a vederlo

di Luisa Morgantini

Paradise Now è un vero film. Intenso, pieno di comprensione e compassione, non giudica anche se la sua scelta è chiara, non dà soluzioni, esprime contraddizioni, dice della profondità dei personaggi ma paga lo scotto della (forse) necessità di colloqui a volte didascalici.

E’ la storia di due giovani amici d’infanzia palestinesi, nati in un campo profughi di Nablus, nel nord della Palestina, nei territori occupati nel 1967 dall’esercito israeliano, che vengono scelti per compiere un attentato suicida in Israele.

Il regista Hani Abu Assad, palestinese, vive ad Amsterdamm , ha girato il film a Nablus e a Nazareth città abitata da palestinesi in Israele, con estreme difficoltà: a Nablus, lì i soldati gli erano sempre addosso. In una sua intervista ci dice: “il mio non è un film politico, io faccio cinema e racconto delle storie, in questo caso quella di due giovani che decidono di sacrificare le loro vite per la causa palestinese. Anche la mia presenza agli Oscar è un modo per rappresentare la causa, perché la Palestina resta una causa visto che non è ancora una nazione riconosciuta a livello internazionale”.

Per me, che frequento regolarmente, a partire dal 1986, la Palestina e Israele è stata una emozione continua. Dall’inizio alla fine, dalla vista del check point di Huwara , situato poco prima dell’entrata nella città di Nablus e del campo profughi di Balata, fino alla vista della città di Tel Aviv, con i suoi grattacieli e le donne in bikini sul lungomare, così in contrasto con le immagini di Nablus, dove le strade della città vecchia sono strette e si intrecciano con i cortili e le case di pietra mentre le strade principali pullulano di automobili e di persone che cercano di raggiunge i banchetti pieni di frutta e verdura e si cammina tra le case bombardate e la vecchia prigione di Nablus, completamente distrutta nelle prime incursioni israeliane, dopo l’inizio della seconda Intifadah.

Al check point di Huwara sono stata ferma ore ed ore per tentare di entrare a Nablus ed ho visto le scene più terribili, decine e decine di giovani spinti brutalmente dai soldati, picchiati e lasciati per ore sotto il sole ad aspettare che i soldati effettuassero il controllo delle loro carte di identità o il permesso per entrare o lasciare Nablus, vecchi e ammalati costretti a passare a piedi ed a volte ricacciati indietro malgrado i certificati medici e gli evidenti segni di infermità. Questo non si vede nel film, ma lo spettatore forse lo può immaginare. Non c’è violenza fisica in questo film, non si vedono i corpi dei feriti o dei morti, l’occupazione è negli sguardi, nelle vite, nella quotidianità, nei colpi di mortaio vicino ai check point e nelle persone che si chinano e camminano su sentieri accidentati perché la strada principale, un’altra, è chiusa dai massi di cemento e dai soldati.

Nel film, il check point ,quello vero, è prima visto da lontano e poi artificiosamente ricreato nella scena successiva per far passare la protagonista del film, Suha, figlia di un eroe della resistenza palestinese assassinato dal Mossad. Suha ha vissuto in Francia e poi in Marocco, la sua pronuncia araba non ha l’accento palestinese, come molte/i palestinesi della diaspora, che hanno potuto tornare nei territori occupati dopo l’accordo di Oslo. Suha viene a riprendere la sua vecchia auto nell’officina meccanica dove due giovani, Said e Khaled, lavorano. Tra Suha e Said c’è coinvolgimento, lo si vede dai gesti e dalle loro conversazioni impacciate. Il padrone Abu Salim stima Said ma detesta Khaled e lo licenzia dopo che il giovane - irritato da un cliente che voleva a tutti i costi parlare con il padrone insistendo che il parabrezza dell’ auto pendeva a sinistra - con una spranga rompe il parabrezza. I due ragazzi passano il resto della giornata su uno dei lati delle montagne che circondano Nablus, che si stende sotto di loro con i palazzi costruiti senza piano regolatore, a fumare Narghilè ed a bere un thè ormai freddo portato da un ragazzino con il quale Khaled fa un gioco di sguardi esilaranti.

Parlano, Khaled pensa di trovare un nuovo lavoro, fa battute sulla simpatia di Suha per Said, hanno silenzi, ascoltano musica e poi tornano verso le loro case, ed è lì che trovano i due dirigenti, si suppone di Hamas, che gli dicono che la loro richiesta è esaudita, è arrivato il momento del loro grande gesto: compiere un attentato suicida in Israele. Vedendoli non si sarebbe detto che fossero dei fanatici del Corano, il loro fare riferimento continuamente a Dio, “se Dio lo vuole”, “grazie a Dio”, “che Dio ti benedica” sembrano in tutto il film più degli intercalari che una fede vera e propria. Eppure sono disposti a compiere questo gesto crudele verso sé stessi e verso gli altri, per il “volere di Dio”, ma le loro motivazioni sono la rabbia, l’umiliazione, il sentirsi vivere, anzi morire, in una prigione sotto un occupazione militare che dura da più di 38 anni.

E’ l’umiliazione che ha subito il padre di Khaled rimasto zoppo da una gamba dopo che i soldati israeliani gli avevano chiesto quale preferiva che gli rompessero,quella destra o quella sinistra, e il padre aveva risposto la sinistra, mentre il figlio dice che all’umiliazione avrebbe preferito perderle tutte e due. E’anche l’umiliazione di Said il cui padre è stato ucciso nella prima Intifadah, quando lui aveva dieci anni perché era un collaborazionista, e questo gli viene ricordato ogni giorno dai vicini, dalle persone che sanno e tutti sanno. Suha non lo sa invece, lei che è figlia di un eroe e alla quale vengono per questo perdonate o concesse cose che forse ad altri non sarebbe permesso.

Said e Khaled passano la loro ultima notte con la famiglia I due dirigenti - quello che resta con Said, Jamal, è un professore (confesso, l’ho odiato) - rimangono a dormire da loro, accolti con la solita cortesia per gli ospiti, malgrado forse le famiglie intuissero qualcosa, con il pretesto che le strade erano state chiuse dai soldati israeliani. Said trova una scusa per il giorno dopo: andrà a lavorare in Israele, la madre chiede come ha fatto ad avere il permesso, lui dice che glielo ha fatto avere Jamal. E la madre ringrazia. Cenano insieme, una cena povera, insalata di pomodori e cetrioli e un piatto di full, fave bollite, il dirigente fa i complimenti alla madre, donna di poche parole e piena di affetto per i figli, il piccolino è intelligente e molto impertinente.

Said sembra attraversato dai dubbi, non riesce a dormire e alle quattro del mattino va a riportare la chiave della macchina a Suha, cerca di metterla sotto la porta ma lei gli apre e lo invita ad entrare. Suha chiede che cosa fa nel tempo libero, se legge, se va al cinema. Ma il cinema a Nablus non c’è più , e l’unica volta che lui ha visto un cinema, il “Rivoli” è stato quando si è unito agli altri per protestare contro il divieto ai palestinesi di lavorare in Israele e lo hanno incendiato. Ma perché incendiare il cinema, insiste Suha, senza ricevere una risposta.

Al mattino partono, la madre di Khaled prepara le pita che riempie di hommos, cetrioli e pomodoro, in una mette il formaggio salato e lo za’atar. Dettagli di una quotidianità fatta di miseria e dignità, dettagli che hanno storia, come quando si vedono due ragazzini che stanno per lanciare un aquilone con i colori della bandiera palestinese. Quante volte nella prima Intifadah alle cinque di sera ho visto dal campo di Balata e da tutta Nablus centinaia di aquiloni con i colori della bandiera palestinese che si stagliavano nel cielo ed immediatamente i soldati correvano dai ragazzini che li avevano lanciati per picchiarli, sparare, lanciare gas lacrimogeni , disperderli o arrestarli.

Per Khaled e Said inizia la cerimonia, vengono rasati e i capelli tagliati, si vestono di un abito festivo, quello che si usa ai matrimoni, gli vengono messe le cinture esplosive che non potranno essere tolte se non da chi le ha messe, crudeltà nella crudeltà, viene il capo a salutarli. Devono registrare il video della loro azione. Ma la telecamera non funziona, Khaled deve ripetere il proclama e quando vede i due dirigenti mangiare la pita preparata dalla madre si interrompe e si rivolge alla madre per dirle di andare a comperare il filtro per l’acqua in un negozio dove costa meno. Partono, devono attraversare la barriera dei reticolati, è tutto organizzato, carte d’identità, un israeliano li accompagnerà a Tel Aviv, è pagato, probabilmente non sa che vanno a fare i kamikaze, ma vive facendosi pagare bene dai palestinesi che hanno bisogno di andare in Israele. Qualcosa però va storto: sulla strada c’è una jeep di soldati.

Ritornano indietro ma Said si perde e gli altri temendo di essere scoperti lasciano il rifugio e dubitano che Said li abbia traditi, ma Khaled insiste, non è un traditore e lo va a cercare, lo stesso fa Said che prima di tornare a Nablus, cerca di compiere la sua missione, c’è una fermata di autobus, sono coloni, c’è anche una bambina, arriva l’autbus, Said non sale, ritorna al rifugio e lo trova vuoto. Gira impazzito, dalla madre di Khaled, da sua madre senza farsi vedere, va all’officina e rivede Suha che ha sempre la macchina rotta, Said gliela sistema ma mentre richiude il cofano il suo orologio rimane schiacciato, lei insiste per andarlo ad aggiustare, vanno insieme anche a ritirare una foto che Said si era fatto fare, sei troppo serio gli dice Suha.

Nella tv del negozio sta andando un video di un attentatore suicida, lei chiede se sono in vendita, si anche quelle della confessione dei collaborazionisti, che vanno molto. Lui trascina la trascina via e in auto le dice che suo padre era un collaborazionista ed era stato ucciso. Si danno un lieve bacio e lui se ne va. Quando arriva a casa Khaled la sta aspettando. E’ vestito come Said. Lei gli salta addosso perché, perché, non dovete farlo. Khaled pensa che Said sia andato sulla tomba del padre, corrono a cercarlo.

Il tragitto è uno dei momenti più intensi e drammatici, Suha - e qui il regista prende posizione - cerca di convincerlo che ci sono altre strade per combattere, che quella militare o degli attacchi suicidi sono sbagliate, che danno strumento ad Israele per mantenere l’occupazione militare, che non è morale. Khaled sostiene che loro non hanno niente, che quello di usare il loro corpo è l’unico modo per rispondere all’occupazione e all’oppressione. No è solo vendetta dice Suha.

Said è disteso sulla tomba, tra i due sono botte, si ritrovano al rifugio dai dirigenti. Jamal insiste con Khaled che deve decidere da solo se vuole continuare l’azione, ma lui vuole prima parlare con Said che viene interrogato dal capo per verificare se è idoneo o no. Supera la prova, è determinato, racconta del padre, della sua vita nel campo profughi, degli israeliani che usano la debolezza per rendere alcuni palestinesi collaborazionisti, assolve il padre. Dice che non ha trovato altra strada che quella di fare il “sacrificio” perché sotto l’occupazione sono già morti. Ripartono, questa volta senza intoppi, arrivano a Tel Aviv e mentre si incammino Khaled si ferma, dice a Said che non devono farlo, che ha parlato con Suha e lei ha ragione, si può lottare in un altro modo. Richiama l’israeliano per farsi portare indietro. Said conferma. Quando l’auto arriva, Said fa entrare Khaled poi chiude la portiera e intima di partire, la macchina si allontana. Khaled piange. Said è seduto su un autobus, ci sono soldati ma anche civili, gli occhi di Said sono sempre fissi....

E qui forse c’è una debolezza da parte del regista, gli attacchi in Israele sono stati fatti anche in luoghi dove vi erano soli civili, la vendetta distrugge tutti.

E’ un film non facile. Sarà contestato, certamente da parte degli israeliani non pacifisti, alcune recensioni apparse in Francia parlano di pura propaganda, ovviamente esprimendo un sacco di pregiudizi oltre che menzogne, ma non saranno i soli, ci sarà il rifiuto anche da parte di molti palestinesi. I due ragazzi non sono visti come eroi, la loro azione il risultato di una condizione, che rende estreme le risposte, sono visti nella loro umanità, con le loro sofferenze, rabbie, desideri, non mostri. Questo rende il film grande. E ad una donna, a Suha , è affidata la ricerca di un strada che non è quella militare, a lei è affidata nel film l’umanità che trovo in Palestina, è lei che riscatta il dolore delle madri e la resistenza dei milioni di palestinesi che non si fanno distruggere dall’umiliazione, dalla povertà, dall’occupazione ma continuano a vivere o a sopravvivere con dignità e a sperare ancora che la Comunità Internazionale faccia applicare il diritto, il diritto di avere uno Stato che coesista in pace e sicurezza con lo Israele.

Un film coraggioso, grazie Hani.

Luisa Morgantini