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PRIMAVERA DI BELLEZZA, di BEPPE FENOGLIO
Publie le lunedì 30 agosto 2004 par Open-Publishing1 commento
Dazibao Libri-Letteratura Storia Enrico Campofreda
di Enrico Campofreda
Cos’è stato l’8 settembre nella coscienza civile degli italiani
in divisa? La straordinaria penna di Beppe Fenoglio lo testimonia nel romanzo
dal titolo fascistissimo “Primavera
di bellezza” come il refrain della prima canzone simbolo del Regime.
E quel titolo
fa da contorno amaro a tutte le delusioni di chi, vestendo l’uniforme, aveva
creduto all’ubriacatura guerrafondaia del Duce d’Italia. Il
Regio Esercito risultò sin dal tragico annuncio del 10 giugno 1940 massa di manovra
servile dell’opportunismo politico di pater familias et gener. Mussolini e Ciano
pensavano di banchettare
pur sugli avanzi dell’alleato tedesco che in otto mesi aveva fagocitato Polonia,
Belgio, Olanda, Danimarca e Francia. Ma subito le campagne di Grecia e Albania
fecero cadere la maschera italica di Forze che era comico definire Armate, inadeguate
com’erano nei mezzi e nei comandi per quella carneficina che diventava il conflitto
mondiale.
Qua e là ci furono atti di valore e caparbietà militari, individuali e collettivi.
Ma se il giudizio deve riguardare l’uomo oltreché il soldato l’occasione di riscatto
fu la scelta soggettiva da tenere dopo l’armistizio. Mentre i gerarchi (forse
in accordo con lo stesso Mussolini) cercavano la scappatoia della sfiducia al
Duce col voto del Gran Consiglio (25 luglio ’43), e Mussolini, dopo la farsetta
dell’arresto veniva fatto liberare da Hitler per restarne il fantoccio con la
Repubblica Sociale, lo Stato Fascista si liquefaceva e la Monarchia Sabauda fuggiva.
Su vari fronti per alcuni giorni restò un Esercito che molti giudicavano di sbandati,
ma per intero non lo fu.
Certo, in tanti soldati e ufficiali, dopo le pesanti traversie vissute sino a
quel momento, prevalse l’istinto di salvare la pelle. Ma alcuni manipoli che,
nelle zone più ostiche avevano avuto le armi, in pugno non le gettarono. Ne nacquero
sacrifici eroici: la Resistenza istintiva e martire di Cefalonia, e gli “sbandati” che
andarono a formare bande partigiane, soprattutto al Nord ma anche al Centro Italia.
Badogliane, come il Johnny-Fenoglio, azioniste come gli ufficiali Revelli e Bocca che hanno narrato l’esperienza di lotta di liberazione nei rispettivi diari ‘La
guerra dei poveri’ e ‘Partigiani della montagna’ (cfr. recensioni). Fenoglio
spiega didascalicamente che la maggioranza dei militari era afascista; i pochi
restanti antifascisti. Per gli anti del Sud i fascisti erano buffoni, per gli
anti del Nord criminali.
Fra i militari che sceglieranno la via del partigianato l’antifascismo diventa
vivissimo: “In un paese serio Mussolini sarebbe freddo cadavere da un
pezzo” dice
Lippolis, e Johnny chiede “Il porco (Mussolini) sarà già rientrato da Feltre?” “Dargli
del porco non basta più” è la secca risposta d’un commilitone. E un artigliere “Questo
bastardo di Graziani, questo vigliacco e traditore” mentre ancora l’indomito
Johnny manifesta il lucidissimo desiderio di morte del generale Graziani, e poteva
vedersi come esecutore materiale, agevolmente, anzi con un empito di gioia morale.
Il giudizio di Fenoglio sul Regio Esercito è altrettanto sprezzante “L’esercito,
che schifo l’esercito. C’è da ringraziare l’8 settembre per aver permesso all’Italia
di constatare che schifo era il suo esercito, che vergogna i suoi ufficiali... Era
vero che il fascismo aveva infettato l’esercito, però sapessi quanto l’esercito
era pronto a farsi infettare”.
Incredibile Beppe-Johnny: romanzo scritto in English, e un inglese slang per
iniziati o per anglofili esperti. Poi tradotto per intero, con tre sole pagine
(relative al dialogo fra Johnny e i soldati britannici evasi dal campo di prigionia
tedesco e utilizzati nella neoformata banda come cucinieri) più qualche frasetta
sparsa, lasciate in lingua madre.
Solito uso magistrale della lingua - italiana o inglese non fa differenza - per
descrivere situazioni e atmosfere, stati d’animo e sensazioni con sempre formidabili
metafore: “La sera franava sulla caserma”, “le goccioline atterravano sulla pelle
e sulla stoffa come rospi piombanti a piedi giunti”, “il vestito che si sciorinò in
tutta la sua volgarità e usura”, “lo guardò come un tumore di cui si fosse liberato
appena in tempo”, “si sentì un pidocchio che vada incontro all’inevitabile pettine”.
S’incrociano anche neologismi come la creazione di avverbi da sostantivi: idioticamente.
Chi per sua sfortuna ha vestito l’uniforme, anche per la sola leva, in periodi
meno tragici, nel dopoguerra anni Cinquanta o Sessanta e pure Settanta, apprezzerà i
sarcastici quadretti fenogliani. Quel bestiario che è la vita di caserma, in
guerra e in pace, luogo di nefandezze e meschinità piccole e grandi, di sermoni
e vessazioni dei graduati sui subalterni, anche se si tratta di giovani ufficiali,
che poi adotteranno con altri la stessa becera procedura. Perché la gerarchia
questo prevede: coazioni a ripetere decerebrate o volutamente sadomasochiste(“Attenti. Riposo. Fate compassione. Attenti. Riposo. Fate schifo. Attenti Riposo.
Rachitici, scoglionati, pezzi di chiavica. Attenti. Riposo. Avanti, marsc” e
ancora “Sputerete, orinerete sangue. Vi faranno un culo così”).
A seguire tanti luoghi comuni che sono tragica realtà dell’ambiente e dell’apparato:
il sergente maggiore che urla, il campanilismo, il nonnismo, il tenente taurino
e sanguigno che andava sempre a passo di carica. Un comandante con sigaretta
e frustino d’ordinanza che presiedeva la ginnastica sfoltitrice di ranghi poiché faceva
fratturare gambe e lesionare schiene poco avvezze ai salti mortali. Certo, nella
miseria e desolazione della guerra anche una caserma di retrovia dove s’addestravano
allievi, aveva camerate con androni scarsamente illuminati e pozze d’acqua in
terra. E poi il cibo che faceva esplodere la dissenteria cosicché lo sterco costellava
gli androni e faceva diga sulla soglia delle camerate finché le evacuazioni avvenivano
persino in Piazza d’Armi, e dovette intervenire il battaglione chimico.
Nella trama lo scenario si sposta a Roma dove gli allievi ufficiali vengono spediti
in treno. Parcheggiati in una scuola del quartiere Montesacro si trovano ad appendere
le armi agli attaccapanni degli scolari. Uscendo in città s’avvicinano ai tanto
retoricamente declamati luoghi del Potere: Villa Torlonia, Palazzo Venezia. Vivono
il bombardamento alleato del 19 luglio ’43, vedono i morti, la disperazione popolare,
il bagno di folla che accoglie il papa. Quando girano per le strade s’accorgono
che la gente li vede come oppositori del fascismo: “fateglielo vedere alla Milizia
che non la vogliamo più”.
Trascorrono bloccati le notti d’agosto mentre gli americani sbarcano in Sicilia
e i tedeschi li guardano come nemici. Con la notizia dell’armistizio c’è la certezza
della prossima devastazione nazista e per molti l’istinto è correre a casa, nascondersi,
sparire. Come fanno innanzitutto gli Alti Comandi. La frustrazione è estrema:
ci si sente abbandonati e impotenti. Occorre disfarsi della divisa per evitare
di essere rastrellati, catturati, fucilati. Il pensiero di continuare la lotta
viene ad alcuni che con treni e mezzi di fortuna risalgono la penisola verso
il Nord. E lì dove ”le Alpi ergono le loro grandi spalle nude” Johnny incontra
dei ribelli che resistono ai tedeschi. È la scelta definitiva. Col sergente Modica,
il tenente Geo e altri s’organizzano, loro, un manipolo recuperano armi e si
scontrano con un centinaio di tedeschi. Sia quel che sia fino alla morte: così si
riscatta l’infamia d’una guerra iniziata dalla parte sbagliata, che solo i ciechi
e fanatici saloini reiterarono col proprio servilismo ai nazisti.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Beppe Fenoglio (Alba, 1922 / Torino, 1963), scrittore italiano
Beppe Fenoglio, “Primavera di bellezza”, Einaudi, Torino, 1991
Fenoglio in Lankelot: “Appunti
partigiani” (Campofreda), “I
ventitre giorni della
città di Alba” (Campofreda) “Il
partigiano Johnny” (Karlsen), “Una
questione
privata” (Campofreda).
Messaggi
1. > PRIMAVERA DI BELLEZZA, di BEPPE FENOGLIO, 1 settembre 2004, 15:18
Fenoglio è stato l’autore che ho amato nell’adolescenza, e di cui ho letto penso l’opera omnia prima ancora delle rivisitazioni filologiche della Maria Corti . E’ l’autore che tuttora amo e che considero grande ed orginale nei classici del ’900 , paragonabile per l’importanza che ha nella letteratura italiana del secolo scorso solo a Svevo ed a Calvino . E mi rifranca il fatto che a quasi trent’anni di distanza dal mio esame di Maturità Classica. dove portai un lavoro di molte pagine su "i 23 giorni della città di Alba" , vi sia chi come Campofreda legga e scriva con competenza e passione di Fenoglio
Buster Brown