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Pentimento e dissociazione: fine degli "anni di piombo" in Italia?
Publie le venerdì 23 aprile 2004 par Open-Publishing
Libero docente a Scienze Politiche Università di Parigi 1 Centro di Ricerca
Politica della Sorbona (direttrice) Isabelle Sommier ha scritto diversi articoli
in riviste specializzate nazionali e internazionali. Ha pubblicato:
*La violence
politique et son deuil. L’après 68 en France et en Italie, (La violenza politica
e i suoi postumi. Il dopo 68 in Francia e in Italia) Presses Universitaires de
Rennes, 1998
*Les mafias (Le mafie), Montchrestien, 1998
*Le terrorisme (Il
terrorismo), Flammarion, coll. Dominos, 2000
*Les nouveaux mouvements contestataires à l’heure de la mondialisation (I nuovi
movimenti di contestazione nell’epoca della mondializzazione), Flammarion, coll.Dominos,
2001 (NdlR)
di Isabelle Sommier
All’indomani dell’offensiva antiterrorista, l’Italia si ritrova con 4087 attivisti
di sinistra appartenenti ad "associazioni sovversive" o a "bande armate" condannati
per "fatti legati a tentativi di sovversione dell’ordine costituzionale". 224
(di cui 130 in regime di semilibertà) sono in carcere ancora oggi e 190 tuttora
latitanti, prevalentemente in Francia. Il fatto é unico in Europa, sia per l’ampiezza
che per l’intensità della ribellione armata. Alla fine degli anni 80 gli "anni
di piombo" avranno lasciato quasi 2000 feriti e 380 morti, 128 dei quali vittime
dell’estrema sinistra. Per mettervi fine, il governo italiano ha adottato una
legislazione eccezionale e impegnato nella lotta uno dei suoi ufficiali più prestigiosi,
il generale Dalla Chiesa. Ma se é vero che questa politica repressiva mette a
segno colpi durissimi per i gruppi armati, essa tuttavia non riesce ad arrestare
il rinnovo dei ranghi sovversivi. Gonfia inoltre considerevolmente la popolazione
delle carceri e comporta un ingorgo dei procedimenti giudiziari. Infine, sul
piano simbolico, alla lunga uno stato democratico non puo’ accontentarsi di un
trattamento puramente coercitivo di un problema che, in fondo, é politico. Ecco
perché in un secondo tempo vengono create due nuove figure giuridiche che devono
significare l’inizio di una "riconciliazione": il pentito che, in cambio di informazioni
sulla sua organizzazione, vede la sua pena fortemente ridotta o, in certi casi, "dimenticata" e
il dissociato che, in cambio di uno sconto di pena, si impegna a riconoscere
l’insieme dei delitti che gli sono contestati ed a rinunciare all’uso della violenza
come strumento di lotta politica. Smantellamento delle organizzazioni e reinserimento,
questi sono ormai gli obbiettivi.
Il primo viene dalla convinzione che bisogna attaccare i gruppi armati sul loro
terreno: quello dell’ideologia, ma anche sfruttare le incrinature o le debolezze
personali che la vita in clandestinità favorisce. Si puo’ capire cosi’ l’osservazione
del magistrato-simbolo della lotta al terrorismo Giancarlo Caselli, secondo il
quale "é grazie alla sociologia, alla psicologia ed alla scienza politica piuttosto
che alla repressione propriamente detta" [1] che la lotta armata é stata vinta
in Italia. Il secondo obbiettivo rimanda all’idea di conversione all’ordine democratico.
Si tratta, dice sempre Caselli riferendosi ai postulanti, di far loro "prendere
coscienza della loro insensatezza" mostrando "il volto dell’indulgenza e della
comprensione". Oltre all’opportunità di dividere ancora di più il gruppo dei
sovversivi, questi nuovi attori offrono, per il fatto stesso che esistono, la
prova di buona volontà di uno stato capace di generosità verso le "pecorelle
smarrite" che riconoscono i loro errori e fanno onorevole ammenda. Anche se a
proposito di queste iniziative si é scritto molto, vengono spesso distinte, l’una
come forma di accettazione, l’altra come rigetto nei meandri del tradimento.
Eppure contengono entrambe uno strappo ai principi democratici, in quanto pongono
gravi problemi sia giuridici che etici. Ma é senza dubbio mediante l’invenzione
del tutto originale della dissociazione che si sviluppa una vera e propria impresa
di normalizzazione il cui compito é quello di chiudere gli "anni di piombo".
Mediante l’esercizio della penitenza alla quale si sottopone, l’ex "terrorista" prende
atto del suo traviamento e sollecita il perdono delle stesse autorità che aveva
un tempo contestato. Questo insolito incontro fra i nemici di ieri presenta un
carattere intermedio fra il politico e il religioso. Remissione dei peccati e
disciplinamento dei comportamenti politici futuri sono strettamente connessi.
Tuttavia, con il distacco dei quasi vent’anni che oggi ci separano da questa
pagina della storia italiana, é permesso dubitare che quest’ultima sia in corso
di superamento.
Dei dispositivi giuridici disinvolti
L’esposizione dei dispositivi giuridici é abbastanza delicata. In effetti, questi "statuti" non
hanno atteso la loro codificazione per essere applicati. D’altronde, una volta
codificato questo riconoscimento giuridico, la sua applicazione é stata teoricamente
circoscritta nel tempo (per esempio, 120 giorni per la prima legge sui pentiti
del maggio 1982), sia pure in modo vago e con delle proroghe (120 giorni supplementari
per la stessa legge). Con la legge n° 304 del 29 maggio 1982, lo stato prende
l’iniziativa di creare la figura giuridica del "pentito". Lo scambio - sconto
di pena contro informazioni - risponde a tre obbiettivi:
Codificare cio’ che esisteva già, l’indulgenza per coloro che collaborano con
la giustizia che non aveva atteso di essere riconosciuta giuridicamente per essere
praticata. Approfittare della crisi in seno alle organizzazioni armate e soprattutto
approfondirla, dato che l’esistenza dei pentiti le fa sprofondare nell’ "era
del sospetto, rompendo la solidarietà della clandestinità" secondo il giurista
Stefano Rodotà [2]. L’obbiettivo viene raggiunto oltre ogni aspettativa, tanto
da poter dire oggi che la disfatta dei gruppi armati é stata più politica che
militare.
Smantellare le organizzazioni e capire il loro funzionamento
I pentiti, convertiti in testimoni a carico dei loro ex-compagni, sono motivati
a dire il massimo poiché la loro sorte finale é direttamente legata all’ampiezza
delle loro confidenze. Il successo pratico di questa disposizione sarà tale da
autorizzare il ministro della Giustizia Virginio Rognoni ad affermare nel 1987
che "ormai conosciamo tutto, o quasi, del vecchio terrorismo; il capitolo é chiuso" [3].
Si puo’ prendere l’esempio del precursore del pentitismo, Fabrizio Peci (ex responsabile
delle Brigate Rosse), le cui confessioni fruttarono nel marzo 1980 93 mandati
d’arresto, 45 arresti, la scoperta di numerose basi di cui una comporto’ 4 morti
nella colonna genovese, il suicidio dell’avvocato Arnaldi e l’arresto dell’avvocato
Spazzali. Anche se prevista dal codice fascista, la figura del pentito, ispirato
direttamente dal testimone della corona della tradizione anglosassone, non era
stata introdotta nell’Italia mussoliniana per non "incoraggiare l’infamia promessa
agli scellerati", come si diceva allora. Tuttavia due articoli del codice penale
possono essere considerati come precursori. Si tratta degli articoli 56 e 62,
che prevedono riduzioni di pena per gli autori di un delitto che "ne impediscono
volontariamente il compimento" (articolo 56 con riduzione da un terzo alla metà della
pena), riparano interamente il danno o agiscono "spontaneamente ed efficacemente
per eliminare o attenuare le conseguenze dannose o rischiose del crimine" (articolo
62, comma 6).
E’ il decreto-legge Cossiga del 15 dicembre 1979 n°625 (convertito in legge il
6 febbraio 1980), dal titolo "Misure urgenti per la difesa dell’ordine democratico
e della pubblica sicurezza", che getta le basi del pentitismo. Coloro che "si
adoperano per evitare che l’attività delittuosa abbia ulteriori conseguenze,
o che aiutano concretamente l’autorità di polizia e l’autorità giudiziaria nella
raccolta di prove decisive per l’identificazione o la cattura dei partecipanti" vedono
la loro pena ridotta dall’ergastolo a fra 12 e 20 anni di reclusione, le altre
pene sono ridotte da un terzo alla metà (articolo 4). La pena é totalmente annullata
per "coloro che, volontariamente, impediscono l’atto delittuoso e forniscono
elementi di prova determinanti per l’esatta ricostituzione del fatto e per l’identificazione
dei loro eventuali complici" (articolo 4). In seguito a questa legge, si stima
che da 200 a 250 prigionieri si sarebbero pentiti fra il 1980 e la metà del 1981.
Davanti al successo del provvedimento, ma anche davanti alle rappresaglie attuate
sugli aspiranti allo statuto di pentiti dai loro ex compagni, il governo adotterà una
nuova legge che andrà più lontano sia nei vantaggi accordati che nella protezione
dei pentiti e delle loro famiglie: la legge n° 304 del 29 maggio 1982 sulle "Misure
per la difesa dell’ordine costituzionale".
Essa estende i casi di "non punibilità" (articolo 1) per associazione di banda
armata ed il porto di armi a coloro che: sciolgono o permettono lo scioglimento
dell’associazione, se ne ritirano o si arrendono senza opporre resistenza o abbandoano
le armi e forniscono informazioni sulla struttura dell’organizzazione della banda,
impediscono la realizzazione di un crimine, si presentano spontaneamente alle
autorità prima dell’emissione di un mandato d’arresto o prima dell’inizio del
procedimento penale. D’altronde, in virtù dell’articolo 2, coloro che hanno uno
dei comportamenti previsti all’articolo 1 prima della sentenza definitiva di
condanna; confessano tutti i loro crimini; si adoperano durante il processo ad
impedire o a ridurre efficacemente le conseguenze dannose o pericolose di un
crimine, si vedono accordare le seguenti riduzioni di pena: dall’ergastolo a
15-20 anni di reclusione; le altre pene ridotte di un terzo con un massimo di
15 anni. Infine, l’articolo 3 prevede che per coloro che, oltre al comportamento
definito ai precedenti articoli, aiutano nella raccolta di prove decisive per
l’identificazione o la cattura di uno o più autori di crimini, o forniscono elementi
di prova per l’esatta ricostituzione del fatto e la scoperta dei suoi autori,
le riduzioni di pena si distribuiscono come segue: dall’ergastolo a 10-12 anni
di reclusione; riduzione della metà per le altre pene con un massimo di 10 anni.
Alla scadenza della data limite prevista dalla legge, il Ministero di Grazia
e Giustizia ha dichiarato 389 beneficiari. La cosa più interessante é la loro
distribuzione per categorie: 78 sono definiti "collaboratori" o grandi pentiti,
134 sarebbero "semplici" pentiti, 177 "dissociati" senza che si capiscono bene
i criteri di differenziazione. Sembra che il legislatore abbia ripreso la scala
giornalistica del pentimento basandosi su una stima tutta soggettiva della sua
supposta importanza che, prosaicamente, sarebbe di fatto funzione dell’ampiezza
delle rivelazioni. Quanto alla categoria "dissociazione", mirava a ricompensare
ed incoraggiare quelli che, prima della sentenza, prendevano le distanze dalla
loro organizzazione, riconoscevano tutti i crimini e delitti che erano loro imputati
e si adoperavano per impedire o moderare i successivi. Altrettanti obbiettivi
che anticipano quelli della dissociazione come la si intende oggi. In effetti é dagli
stessi ranghi del movimento della contestazione che nasce veramente, nel 1982,
la figura del "dissociato", per iniziativa di Toni Negri e col sostegno di certi
magistrati del sindacato di sinistra Magistratura democratica. Senza denunciare
esplicitamente i suoi ex compagni, il postulante tratta una riduzione di pena,
da un lato riconoscendo tutti i delitti di cui é imputato, dall’altro impegnandosi
a rinunciare all’uso della violenza come mezzo di lotta politica (cfr. esempio
allegato Alberto Franceschini).
La dissociazione é, e resta ancora oggi, una pura invenzione italiana che il
governo renderà ufficiale con la legge del 18 febbraio 1987 come "il comportamento
di chi, accusato o condannato per delitti a scopo di terrorismo o di sovversione
dell’ordine costituzionale, ha abbandonato definitivamente l’organizzazione o
il movimento terrorista o sovversivo al quale ha appertenuto, avendo cumulativamente
i seguenti comportamenti: ammissione delle attività realmente svolte, comportamento
obbiettivamente e senza equivoci incompatibile con la persistenza del vincolo
associativo, rifiuto della violenza come metodo di lotta politica" (articolo
1). Le riduzioni di pena sono le seguenti: ergastolo: 30 anni di reclusione,
delitti di omicidio o tentativo di omicidio volontario, lesioni personali volontarie
gravissime: riduzione di un quarto della pena, delitti associativi o di fiancheggiamento,
porto e detenzione di armi ed esplosivi, falso e connivenza personale o reale,
apologia o incitazione al crimine: riduzione della metà della pena, altri delitti:
riduzione di un terzo della pena. Non sono contemplati dalla legge i responsabili
di stragi (articolo 2). La totalità della pena da scontare non puo’ superare
i 22 anni e 6 mesi (articolo 7). Da notare che gli aspiranti a tale statuto dovevano
farne domanda entro il 1987. Per questo il suo inventore, Toni Negri, non ne
beneficia dopo il suo ritorno volontario in Italia il 1° luglio 1997 [4]. L’originalità della
dissociazione é la collaborazione di una parte del campo sovversivo e del campo
politico istituzionale nella sua elaborazione ed applicazione, poiché questa
iniziativa privata di ex militanti suscita a partire dall’anno successivo la
prima proposta di legge. Questa é seguita, sempre nel 1983, da un secondo documento
firmato da alcuni detenuti, "L’uovo del serpente". Ma solo cinque anni dopo la
dissociazione entrerà ufficialmente nel diritto penale. La sua applicazione risparmia
allora molti grattacapi allo stato italiano, da una parte risolvendo il problema
del sovrapopolamento delle carceri, dall’altro riducendo gli effetti negativi,
di fronte ai suoi partners europei, di un numero troppo elevato, per un paese
democratico, di persone detenute per crimini e delitti politici. I seguenti numeri
lo testimoniano: sui 442 "prigionieri rossi" del 1988, 161 sono considerati "irriducibili",
170 sono dissociati, 34 pentiti, 64 "non classificati" (i 13 rimanenti, arrestati
recentemente, non erano ancora classificati). L’ultimo censimento (1994) mostra
che restano oggi in prigione 69 dissociati e 143 "né dissociati né pentiti" [5].
Dunque é un successo da un punto di vista di politica carcerale e di politica
tout court, poiché queste iniziative hanno dato l’opportunità di dividere ancora
di più il gruppo dei sovversivi ed hanno cosi’ contribuito alla sconfitta politica
delle organizzazioni clandestine ed al loro smantellamento.
Polemiche intorno al diritto ed alla morale
Eppure, l’introduzione di queste nuove figure giuridiche non é stata agevole.
Oltre agli strappi al diritto, esse sollevano questioni etiche che, in un paese
cattolico come l’Italia, si sono in parte focalizzate sulla dimensione simbolica
della designazione.
E’ vero che l’inizio di "riconciliazione" avviato con l’attribuzione degli statuti
di pentito e di dissociato si presta ad una confusione semantica. Il primo si
applica solo ad individui che collaborano con la polizia: non vi é qui alcun
pentimento. Ed é infatti al secondo che l’etichetta dovrebbe competere poiché é lui
il "dissociato" che si presenta al giudice in uno spirito di penitenza con la
speranza di ottenere una remissione dei suoi "peccati", ovvero il perdono delle
vittime. Confusione semantica che deve essere interpretata in relazione alla
cultura cristiana, all’origine dell’invenzione degli statuti in questione. In
effetti, la figura del pentito, come quella del dissociato, le sono familiari.
Cosa evoca il termine di pentito se non un individuo che, dopo qualche turba
comportamentale, prende coscienza dei suoi peccati, li rimpiange sinceramente
e s’impegna a non commetterli più? E per questo deve ispirare il perdono ed il
rispetto del buon cristiano. Ma il ritratto corrisponde piuttosto al dissociato,
non estraneo ad una filiazione con l’eretico che abiura la sua fede per cancellare
il suo errore. Non stupisce che numerose personalità ecclesiastiche si siano
turbate per un errore semantico che, indirettamente, restituiva un’immagine della
chiesa almeno poco gloriosa. Passato il turbamento cristiano, sono gli aspetti
strettamente giuridici degli statuti intorno ai quali si sono concentrate e si
concentrano ancora oggi critiche ed interrogativi. Il pentito non é un delatore,
ma un testimone a carico in un processo dove spesso é, nello stesso tempo, accusato.
Questa doppia posizione é stata denunciata da certi avvocati, di cui sconvolge
il ruolo, come costituente una minaccia per i diritti della difesa. D’altronde,
si possono avanzare dubbi sull’affidabilità di confessioni dettate da un interesse
personale come quello di vedere la propria pena fortemente ridotta o dimenticata.
In qualche modo, c’é voluta l’esplosione dell’affare Sofri ed altri perché il
problema giuridico posto dai pentiti diventi una questione pubblica grazie alla
mobilitazione dell’importante capitale sociale del principale accusato [6]. Il
suo difensore più prestigioso, Carlo Ginzburg, é arrivato ad impegnare le sue
competenze di storico specialista dei processi per stregoneria per denunciare
la debolezza dell’amministrazione della prova a partire dalle confessioni del
pentito Leonardo Marino, che indicano nel 1988 gli ex responsabili dell’organizzazione
Lotta Continua Sofri, Pietrostefani e Bompressi come coloro che hanno commissionato
l’assassinio, nel 1972, del commissario Luigi Calabresi [7]. Ma se ha ragione
di sottolineare le analogie fra questo processo e quelli dell’Inquisizione, resta
in una logica di complotto di cui sarebbe vittima il suo amico e, soprattutto,
eleva al rango di eccezione ed errore giudiziario una pratica banale e di routine
da quasi vent’anni contro la quale non si era mai ribellato (né lui né, del resto,
la grande maggioranza dei firmatari della petizione lanciata a favore degli accusati).
Il rischio di deposizioni fantasiose é rafforzato dal fatto che le confessioni
non sono corroborate da fatti obbiettivi esterni, quindi sono processi senza
contraddittorio. La diffusione di un documento presentato come proveniente dalla
sezione anti-crimine dei carabinieri di Roma sottolinea un’altra possibile deviazione:
quella della manipolazione e persino della fabbricazione di un pentito. Vi si
parla della condotta da seguire riguardo all’amante, che sembra psicologicamente
e materialmente fragile, di un militante anarchico indagato.
Pur respingendo categoricamente l’ipotesi secondo la quale avrebbe un qualche
legame ideologico con la "sovversione" in questione, la nota preconizza di suggerirle
informazioni relative a fatti criminali di cui è sospettato il suo amico e dunque
di presentarla come pentita, al fine di farlo "cadere" [8]. Inoltre, la clemenza
riguardo ai grandi pentiti sfugge talvolta ad ogni controllo, poichè è previsto
che possano essere rimessi in libertà in casi di "eccezionale interesse" prima
dello svolgimento del processo su ordine del giudice istruttore che dispone,
allora, di un potere discrezionale esorbitante. Ci si ritrova cosi’ in una situazione
in cui ex-responsabili di numerosi delitti sono in libertà mentre dei "comprimari",
che hanno da rivelare poco o nulla, restano in carcere mentre alcuni possono
fare parecchi anni di carcere preventivo sulla base dei sentito dire di un pentito.
Citiamo alcuni casi: Marco Donat Cattin, condannato per tre omicidi, liberato
dopo tre anni di prigione; Walter Sordi, otto omicidi, quattro anni di prigione;
Roberto Sandalo (Prima Linea), tre omicidi e meno di tre anni di prigione. Lo
statuto di dissociato pone un problema diverso: quello della violazione di un
sistema giudiziario che tiene conto degli atti e non delle intenzioni. La sorte
finale del dissociato è in effetti determinata dalle sue dichiarazioni, sostenute
in futuro da un comportamento adeguato, piuttosto che dai suoi delitti. L’individuo
non è giudicato per cio’ che ha fatto ma per cio’ che pensa e che promette di
essere. In effetti, l’articolo 5 della legge prevede che i benefici della dissociazione
possono essere rimessi in questione non solo in caso di recidiva ma anche di "comportamenti
incompatibili con la precedente dissociazione". L’uno e l’altro di questi statuti
violano dunque più volte il livello ultimo del procedimento penale, la pena :
nel suo principio stesso, quello della punizione effettiva, nel principio dell’uguaglianza
davanti alla pena, in quello dell’eguaglianza dell’esecuzione, dissociati e pentiti
beneficiano di condizioni penitenziarie particolari, in quello dell’esemplarità della
pena.
Un’ offerta di normalizzazione
In verità, cio’ che è in gioco nella riconciliazione parziale sottintesa dalla
dissociazione, ha poco a che vedere con il diritto e la morale o, pîuttosto,
articola i due livelli in un progetto di normalizzazione sociale. Progetto di
normalizzazione che si rivela anzitutto nelle motivazioni della dissociazione:
il desiderio di riprendere una vita normale. La decisione di dissociarsi appare
in effetti spesso come l’approdo di un lungo e doloroso distacco dall’organizzazione
le cui cadenze seguono strettamente i momenti di crisi dell’impegno armato, crisi
suscitata da un crimine che fa discutere o da tensioni interne. Il legame fra
percorso individuale e traiettoria dell’organizzazione sembra stabilirsi intorno
al 1979 ed accentuarsi due anni più tardi con la conseguenza dei primi pentiti.
Ma in generale è la carcerazione e la prospettiva di scontare una lunghissima
pena che, sul fondo della crisi della militanza, precipitano l’atto della dissociazione.
Occorre tener conto di un terzo elemento che rende le cose ancora più complesse:
cioé la sua concomitanza con un’avvenimento di tipo privato (incontro amoroso
o matrimonio) che viene a simbolizzare in un certo modo la rivincita del privato
e degli affetti su un impegno totale che presupponeva la rinuncia alle aspirazioni
individuali [9].
Normalizzazione, poi, mediante il passo volontariamente effettuato dal postulante
che domanda per lettera ed in una forma standard di approfittare dei benefici
della dissociazione. Con la sua dichiarazione egli accetta di riconoscere tutti
i fatti che gli sono contestati, di esporne i particolari insieme a quelli di
cui ha avuto conoscenza. Si ritrovano qui i principi del "modello giuridico-religioso
della confessione" messo in luce da Foucault, in particolare l’intreccio fra
sapere e potere [10]. Normalizzazione sopratutto per lo spirito che presiede
allo statuto: la conversione all’ordine democratico, che costituisce l’unica
materia di scambio con lo stato. Come notava Mario Gozzini, i dissociati "sono
persone che hanno preso coscienza, ed hanno amesso, di essersi sbagliate (...)
(e) hanno domandato di saldare i loro conti (...) lavorando per la società".
[11]. Si potrebbe parlare di una riabiltazione a due velocità. Da una parte,
l’individuo riconosce con la sua dichiarazione la validità dell’ordine costituito
e delle sue regole e si impegna ormai a rispettarle. Dall’altra, ed in conseguenza
di cio’, egli si prepara ad una reinserzione sociale futura garantita dallo stato
mediante le riduzioni di pena, poi i regimi di semi-libertà ed infine una liberazione
condizionale. La reinserzione da in generale buoni risultati, spesso in lavori
di utilità pubblica che vengono in qualche modo a coronare la "rinascita" (sociale)
dell’ex-deviante. Infine, il postulante accetta di sottoporsi ad una specie di "giudizio
dell’anima", per riprendere l’espressione di Michel Foucault [12], nella misura
in cui i benefici ricavati dallo statuto sono condizionali e possono essere rimessi
in questione in base all’esame del suo comportamento futuro. Evidentemente, "la
conversione all’ordine democratico" non si fa con la semplice firma di una lettera
di dissociazione. Questa firma è nello stesso tempo il punto d’arrivo ed il punto
di partenza di un processo di conversione, nel senso forte del termine, o anche
di trasformazione totale, mediante la quale l’individuo "cambia mondo" [13].
Per esempio, è significativo che "l’area omogenea" della prigione di Rebibbia,
all’origine della dissociazione nel 1982, s’impegna tre anni dopo in una serie
di "settimane sui movimenti (sociali degli anni 1978) e sul riformismo" animata
da intellettuali ed uomini politici del PSI. La lezione politica che se ne ricava è chiara:
inveire contro "una rivoluzione impossibile" e sottolineare la vittoria del "riformismo
che ha acquisito un vasto terreno di consenso, anche ideologico". [14]. In questo
senso, questi incontri fanno parte della costruzione di una storia ufficiale
la cui radice é prevalentemente l’esorcismo [15].
"Il traditore, il buono e il cattivo"
Se si puo’ far credito al legislatore di essersi preoccupato di facilitare la
reinserzione individuale degli ex-militanti, è altretanto chiaro che, sul piano
collettivo, si trattava per lui di mettere in crisi le organizzazioni. Crisi
di sospetto, crisi di sfiducia, crisi d’identità, applicando il vecchio adagio:
dividere per regnare meglio".
La creazione della figura del pentito rimanda, da questo punto di vista, ad una
tattica elementare, per non dire rudimentale: raccogliere informazioni e seminare
nei ranghi il veleno del sospetto, che è sempre propizio ai regolamenti di conti
ed a rotture di solidarietà di ogni genere. La logica della dissociazione è nello
stesso tempo più sottile e più tremenda per le organizzazioni clandestine perchè si
basa, in origine, su una volontà di distinguersi e, in certuni, di combattere
una parte della loro comunità deviante di origine. Infatti, tutto l’edificio è basato
sulla divisione. Ora, questa dicotomia fra "buoni" e "cattivi" è stata totalmente
interiorizzata, se non provocata, da una parte del gruppo sovversivo stesso,
in particolare dai dissociati. In effetti, sono loro che moltiplicano l’essenziale
delle stigmatizzazioni pubbliche nei confronti dei loro ex-compagni ormai pentiti,
prima di continuare i loro anatemi nei confronti di coloro che non aderiscono
alla la loro scelta di dissociarsi. Non citeremo che un esempio. Ecco in che
termini uno dei primi e più grandi pentiti, Fabrizio Peci, giustifica la sua
decisione: "Sono arrivato alla conclusione che la nostra lotta, la lotta delle
BR e più in generale la lotta armata, era nociva per gli interessi della sola
classe operaia. Per questo ho domandato di incontrare un magistrato. Ho preso
questa decisione dopo aver visto che il Consiglio Superiore della Magistratura,
alcuni ministri, il Presidente della Repubblica erano pronti a considerare favorevolmente
la collaborazione.
Principalmente pagando questa collaborazione con la grazia, l’annullamento della
pena e dunque la possibilità di ricostruire la propria vita". L’argomentazione,
che comnicia con "gli interessi della classe operaia" per finire con considerazioni
tanto strumentali quanto individuali, è certo per lo meno traballante. La sua
stessa goffaggine sembra escludere ogni ambizione politica. In cio’, è tristemente
esemplare della maggio parte dei modi di "giustificazione" degli altri pentiti
della stessa tendenza che, evidentemente, cercano semplicemente, per dirla brutalmente,
di "salvare la pelle" vendendo quella degli altri. Mercatosenza dubbio immorale
(ma quanto efficace!) denunciato da tutte le parti, in particolare da Toni Negri,
che aggiunge tuttavia che l’"immoralità" non è appannaggio del pentito ma è resa
possibile dall’ "immoralità" propria del giudice "che (lo) fabbrica (...) nella
misura in cui lo libera dai legami di lealtà dovuta al gruppo"[16]. Certuni non
mancheranno di trovare buffa, in bocca a Toni Negri, la critica che essi rivolgono
proprio a cio’ che la dissociazione, di cui lui è il padre spirituale, rappresenta:
una rottura della solidarietà e dell’unità del gruppo. Mettere una contro l’altra
le due figure negative per eccellenza dell’Italia dell’epoca, pentiti e "terroristi",
costituisce in effetti una delle pietre angolari del movimento della dissociazione.
Il suo atto di nascita è scritto in prigione con il documento detto dei 51 o
anche della "area omogenea" reso pubblico nell’estate 1982.
L’iniziativa ebbe come effetto principale di dividere la comunità carceraria,
impegnandone una parte nella costruzione del folk devil. Il testo fondatore della
dissociazione:" Terrorismus? Nein, danke" (23 mars 1981), non nasconde che l’iniziativa è diretta
contro le BR in particolare e le "Organizzazioni Comuniste Combattenti" in generale.
E’ fondato in effetti su una dicotomia dei detenuti politici, divisi fra "terroristi" (dixit
il testo) e gli altri, vittime del "stalinismo" dei primi. L’obiettivo di "battere
il terrorismo" vi è esplicitamente dichiarato: "l’unico mezzo per battere il
terrorismo consiste nell’intervenire sui meccanismi che lo riproducono avendo
la legittimità politica per farlo. E non si puo’ avere legittimità che quando
si parla dall’interno del movimento di classe", cosi’ spiega Toni Negri [17].
Una parte della comunità deviante esprimeva cosi il suo rifiuto dell’etichetta "terrorista" appioppandola
all’altra e presentandosi come la meglio armata per combatterla. "La differenza
fondamentale fra Autonomia e Brigate Rosse è che le Brigate Rosse erano un’organizzazione
terrorista nel senso tradizionale mentre Autonomia, al contrario, non lo fu mai.
Autonomia fu un largo movimento di associazione politica ugualmente violento,
ma che non ha niente a che vedere con il terrorismo, nemmeno con il terrorismo
di tradizione. Li’ era dunque la differenza fondamentale, una differenza d’organizzazione,
di strategia, di forme di lotta, di identificazione dei soggetti sociali, di
ideologia, etc.
E una differenza come quella fra il giorno e la notte". [18] Per questo si puo’
dire che la stigmatizzazione della figura in movimento del nemico interno si
realizza a partire dall’inizio degli anni 1980 con la creazione di quello che
Stanley Cohen chiama un nuovo tipo di folk devil la cui immagine si costruisce
nelle interazioni fra i myth makers (i mass media) ed i rules enforcers (gli
agenti del controllo sociale) con la partecipazione degli aspiranti alla riabilitazione
[19]. Un autonomo ci ha riassunto questa evoluzione nel modo seguente: "le parole
d’ordine dell’Autonomia milanese sono state quattro, dalla sua nascita al dopo
Moro: all’inizio, i militanti delle BR erano definiti "compagni che sbagliano" -
sono dei compagni, come noi, contro lo stato - ; durante il sequestro Moro, lo
slogan era: "contro lo stato ma in modo diverso"; subito dopo, con il sette aprile: "né con
lo stato, né con le BR"; nell’ultima fase, lo slogan ha assunto, con la dissociazione,
il tono "con lo stato, contro le BR". Tutto cio’ è stato detto". C’è tuttavia
un vero paradosso: la dissociazione è un mezzo legale offerto agli ex-"terroristi" per
denunciare, con la loro autocritica, un "progetto terroristico".
Ora, da cosa si puo’ dissociare un uomo come Negri se egli attribuisce solo agli
altri la qualifica di "terroristi" e si afferma estraneo alla lotta armata? Una
volta lanciato il segnale, la dissociazione non resterà a lungo appannaggio dell’area
autonoma. Sarà massicciamente investita dagli ex-membri di Prima Linea con il
loro documento "per il comunismo" che denuncia la "logica di annientamento reciproca
di due improbabili eserciti" che costo’ la vita a "centinaia di militanti comunisti
sottratti alla lotta di classe nel macabro walzer della spirale del terrorismo
e della repressione". In seguito, vi si infilano militanti di tutte le organizzazioni,
senza per questo esprimere una legittimazione "sapiente" e/o esplicitamente ideologica.
Cosi’ si giustifica Alberto Franceschini, co-fondatore delle BR: "ormai la rivoluzione
non era più all’ordine del giorno, dovevamo travare il modo per rientrare nella
società (...), non domandiamo un trattamento di favore, ma soltanto di essere
trattati come detenuti di diritto comune, non più come "pericolosi terroristi" (per)
far capire che siamo cambiati rispetto al passato, che vogliamo ritornare alla "vita
normale" senza per questo vendere la nostra dignità" [20 ]. Si ritrova in quest’ultima
testimonoanza l’aspirazione individuale a "voltare pagina" e a reinserirsi socialmente
all’origine del progetto di normalizzazione iniziato con la firma della lettera
di dissociazione.
Senza gli accenti di crociata morale che ha presso i suoi inventori e/o promotori,
che sembrano impegnarsi nella nuova missione di "purificare" la società dai suoi
elementi devianti con un fervore identico a quello dimostrato nel corso della
loro traiettoria militante. Poichè, all’altra estremità della catena, e per contrasto,
gli statuti di pentito e di dissociato inventano una nuova figura: quella dell’ "irriducibile",
del mostro irrecuperabile che non solo non abiura ma che sarebbe suscettibile
di ricominciare appena uscito di prigione. Non ci sono nomi e dunque nemmeno
posti per gli altri, che si ritrovano cosi’ schiacciati fra la negazione e la
prosecuzione di un’idea che considerano ormai sbagliata. Sembra cosi che non
vi sia alternativa fra il mantenimento nella devianza e la remissione di un peccato
(di gioventù?) che deve necessariamente essere reso pubblico e consacrato davanti
ad uno stato e da quello stesso stato che si é combattuto in passato. Questa
logica segregazionista dei pentiti contro tutti gli altri continua ancora oggi.
Nel momento in cui la legge sulla dissociazione veniva infine votata nel 1987,
i due capi storici delle Brigate Rosse, Renato Curcio e Mario Moretti, intervenivano
in favore di un’amnistia generale senza contropartita con l’apertura della "battaglia
per la libertà". I dissociati le opponevano immediatamente la proposta di "indulto" (riduzione
di pena) considerando la proposta come una revendicazione "estremista e irrealista"...
Dato che la maggior parte è rifugiata in Francia, essi arriveranno a domandare
al governo di riconoscere l’esilio come una pena per vedersi attribuito uno statuto
equivalente a quello dei prigionieri. Più recentemente, la legge sulle riduzioni
di pena (applicabile a tutti) è stata denunciati da taluni perché accordava riduzioni
di pena senza contropartita. Soluzione in certo modo opportunista, la dissociazione
prosegue dunque nella sua logica corporativa ed impedisce un processo generale
di scarcerazione, ma anche di superamento degli anni di piombo.
Una pagina della storia lasciata aperta
Si puo’ dire che il pentimento e la dissociazione hanno soddisfatto solo i partners
della scambio: beneficiari delle riduzioni di pena concesse e personale politico
del momento per gli effetti di queste misure in materia repressiva e carceraria.
Ma se l’obiettivo a medio e lungo termine era di voltare la pagina degli "anni
di piombo", il fallimento è patente. Inutile dire che già "l’Associazione italiana
delle vittime del terrorismo e della sovversione" non ha accolto con entusiasmo
queste leggi dato che il legislatore continuava a rifiutarle lo statuto di vittima
ed ogni indennizzo ad esso collegato. Più in generale, il varo degli statuti
non ha incontrato, come si è visto, il consenso generale e ha perfino dato luogo
a discussioni e polemiche. Esso si basa inoltre sull’individualizzazione e la
differenzziazione dei detenuti e prolunga lo stato d’emergenza. Tuttavia la questione
fondamentale è un’altra. Il superamneto di una pagina dolorosa della storia suppone
come condizione un confronto collettivo con "il male del passato" [21] che impegna
un vero lavoro di memoria, nelle sue cose non dette, nei suoi tabù o nelle sue
deformazioni. Ora, da questo punto di vista, l’invenzione degli statuti ha avuto
effetti dirimenti nella misura in cui condiziona direttamente un’immagine falsata
degli anni di piombo. Anzitutto con la pretesa dei giudici di fare la storia
di questo periodo attraverso confessioni degli uni e degli altri. Nell’accordo
che stipula con lo stato il pentito non fa che dare dei nomi. Non è che un delatore.
Nella ricostituzione minuziosa ed interessata dei crimini e dei delitti egli
accetta un’altra moneta di scambio: la confessione di cio’ che lo stato aspetta
da lui. Egli partecipa anche ad una ricostruzione della storia di quegli anni.
In questo senso, Oreste Scalzone ha ragione di parlare a questo proposito di "memoria
mercenaria" e di illustrarlo: "per esempio, era importante nell’affare Moro che "confessassero" che
le BR avevano fin dall’inizio scelto la morte di Moro." [22]. Basandosi quasi
esclusivamente sulle confessioni del pentito, od orientandole se si presenta
l’occasione, il giudice intende ricostruire i fatti senza omissioni, a costo
di aggiungere interpretazioni sue per colmare una lacuna o un anello mancante,
interpretazioni che, per effetto dell’autorità, acquisiscono una dimensione di
verità.
In questo senso, egli si erge a storico. D’altronde, è in parte per denunciare
quest’evoluzione che intellettuali come Ginsburg sono intervenuti recentemente
a soccorrere Sofri, "vittima" di un pentito. Ma concentrandosi sul "caso Sofri",
per amicizia e/o per solidarietà di classe, essi si ergono a loro volta a giudici
quando usano l’argomento dell’autorità (questa volta di accademici) per affermare
che solo Sofri sarebbe vittima della logica giudiziaria dello stato d’emergenza
e sarebbe perfino l’unico innocente mentre gli altri sarebbero colpevoli, come
decreto’ amabilmente Ginsburg a carico di Negri al Salone del Libro del 1997
[23]. Tuttavia, l’obbrobrio sui pentiti è tale che la loro ricostruzione della
storia non è credibile. In compenso, le conseguenze storiografiche della dissociazione
vanno più lontano, poiché essa si basa sul postulato secondo il quale le pratiche
di violenza (violenza di massa, violenza di avanguardia, semiclandestina, totalmente
clandestina) sarebbero state, fin dall’inizio, perfettamente impermeabili le
une rispetto alle altre. . Viene sintetizzata cosi’ la tipologia fra organizzazioni
che si potrebbero definire terroriste "in modo congenito" e organizzazioni di
estrema sinistra che accettano il ricorso alla violenza senza cadere nel terrorismo.
La realtà era tutt’altra: fino a metà degli anni 1970 le azioni violente erano
largamente intrecciate e non distinguevano con chiarezza i gruppi gli uni dagli
altri. E’ solo progressivamente che alcuni vanno in qualche modo a specializzarsi
nella lotta armata clandestina mentre altri, precisamente gi Autonomi, privilegeranno
il suo esercizio "pubblico" mediante scontri di piazza, attacchi a sedi di partito,
azioni punitive, etc. senza peraltro rinunciare a pratiche svolte nell’ombra
[24]. "Dimenticando" cio’, la storia degli anni di piombo riportata dai dissociati
cade in un manicheismo che impedisce di capire l’escalation della violenza (a
meno di ricorrere alle tesi della manipolazione o della malvagità di alcuni).
Essa ha reso ancora più confuso il rapporto che molti in Italia intrattengono
con questo passato recente e senza dubbio più difficile una reflessione collettiva
priva di interessi di questo o quel gruppo. La ricostruzione di una storia che
ne nasconde un’altra è talvolta una vera "operazione di sopravvivenza". In un
certo modo, questi statuti non solo introducono una considerevole rottura biografica,
ma anche una dissociazione del soggetto, soprattutto per i dissociati, di cui
si potrebbe dire che gli sforzi di riscrittura della storia collettiva di quegli
anni assomigliano ad una accanita lotta interna contro il "mostro" che hanno
in essi, questo terrorista che fustigano attraverso i loro ex-compagni. Da li’,
forse, la dimensione di crociata e gli accenti di redenzione che assume in certuni
la loro rilettura del passato. Ma questa ipotesi richiede altre competenze ed
altri luoghi di riflessione.
La dichiarazione di dissociazione di Alberto Franceschini [25]
"Io sottoscritto, Alberto Franceschini, nato a Reggio Emilia il 26 ottobre 1947,
attualmente detenuto nella Casa Penale di Rebibbia a Roma, dichiaro, in conformità con
le mie precedenti dichiarazioni ed i miei comportamenti durante i processi e
fuori:
*di avere definitivamente abbandonato ogni organizzazione ed ogni movimento a
carattere terrorista o sovversivo;
*di essere disposto a riconoscere le attività effettivamente svolte a scopo terrorista
o sovversivo;
*di ripudiare la violenza come metodo di lotta politica;
*di voler sottomettere, perché venga esaminato, il mio comportamento alle Autorità competenti,
ritenendolo obbiettivamente e senza equivoci incompatibile con il mantenimento
di ogni legame associativo a carattere terrorista o sovversivo che sia;
*di essere di conseguenza DISSOCIATO DAL TERRORISMO nel senso dell’articolo 1
della legge "Misure in favore di chi si dissocia dal terrorismo" recentemente
approvata e di cui domandero’ per me l’applicazione ai giudici competenti. Alberto
Franceschini"
[1] Cfr. intervista rilasciata a Marcelle Padovani, Le Nouvel Observateur, 14
– 20 novembre 1986.
[2] Libération, 10 maggio 1983.
[3] Le Monde, 24 marzo 1987.
[4] Approfitterà tuttavia, un anno dopo ed a condizioni favorevoli, dei benefici
dell’articolo 21 che gli permettono di lavorare all’esterno della prigione durante
il giorno.
[5] Progetto memoria. La mappa perduta. Roma, Sensibili alle foglie, 1994, pp.508-509.
[6] Di fatto, delle voci si erano già levate per criticare l’uso delle confessioni
dei pentiti "politici" nel corso dei processi, ma non hanno mai avuto l’eco né la
portata di quelle provocate dall’ "affare Sofri". La polemica sul "sistema dei
pentiti" si é nutrita in seguito del ruolo svolto dai pentiti mafiosi nella lotta
antimafia, in particolare quando sono stati tirati in ballo uomini politici in "odore
di mafia".
[7] Carlo Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni a margine del processo
Sofri, Paris, Verdier, 1997.
[8] Questa "nota informativa di servizio ad uso interno relativa ad una possibile
indagine sulla sovversione anarchica", datata 19 dicembre 1994, é stata resa
pubblica da una radio alternativa di Torino, Radio Black-out. Scateno’ discussioni
senza fine quanto alla sua veridicità. Comunque, sussistono pochi dubbi sul fatto
che pratiche moralmente riprovevoli di pressione ovvero di manipolazione di "testimoni" hanno
comunemente corso negli affari sensibili. Aggiungiamo che la "fuga" si inscriveva
in un ambiente avvelenato dal conflitto pubblico fra una parte della magistratura
e l’arma dei carabinieri sui rapporti di quest’ultima con i "collaboratori di
giustizia" mafiosi.
[9] Da un gruppo all’altro, i modi di rompere con un impegno passato possono
essere formalmente gli stessi, mobilitando pero’ registri di giustificazione
(ovvero rispondendo a bisogni psicologici) opposti. In questo senso, si tratta
di una decisione individuale codificata da un’appartenenza collettiva che resta
attiva anche se é oggetto di un diniego. Giuseppe De Lutiis ("Moventi e motivazioni
della dissociazione" in Raimondo Catanzaro (Dir.), La politica della violenza,
Bologna, il Mulino, 1990, p.189) oppone cosi’ i dissociati di sinistra più portati
all’abiura senza collaborazione ai dissociati di destra, presso i quali prevale
un orientamento di collaborazione senza abiura, legittimata anzitutto dalla preoccupazione
di ristabilire una verità storica (quella della loro manipolazione da una parte
dei servizi segreti). In un altro universo, quello dei mafiosi, il pentimento é spesso
motivato da una vendetta contro un clan rivale che non rispetterebbe più il codice
d’onore.
[10] Michel Foucault, Les anormaux, Paris, Gallimard-Le Seuil, 1999, p.164
[11] L’Unità, 21 gennaio 1988
[12] Michel Foucault, Surveiller et punir, Paris, Gallimard, 19/5, p.26 e seguenti
[13] Peter Berger e Thomas Luckmann, La construction sociale de la réalité, Paris,
Méridiens Klincksieck, 1992, p.214.
[14] Questi seminari sono stati parzialmente pubblicati dalla rivista Micromega,
n°1, 1987, pp.83-114. Vi si puo’ vedere la formalizzazione di un avvicinamento
fra certi ex militanti, intellettuali, "professionisti della giustizia" ed uomini
politici di sinistra. E’ possibile che siano state personalità del sindacato
Magistratura Democratica a fare da staffetta fra i dissociati e gli ambienti
politici.
[15] Per un’analisi della memoria degli anni 1968, vedi nostro articolo, "Les
’années 68’. Entre l’oubli et l’étreinte des années de plomb", Politix, n°30,
1995, pp.168-177.
[16] Toni Negri, Italie rouge et noire, Paris, Hachette, 1985, p.72.
[17] Articolo "Terrorismus? Nein, danke" riportato in Toni Negri, Italie rouge
et noire, Paris, Hachette, p.117.
[18] Intervista rilasciata da Toni Negri a Sergio Zavoli, La notte della Repubblica,
Milano, Mondadori, 1992, p.264. Sulla posta in gioco in una tale lettura della
storia, vedere Isabelle Sommier, La violence politique et son deuil. L’après
68 en France et en Italie, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 1998.
[19] Stanley Cohen, Folk Devils and Moral Panic. The Creation of Mods and Rockers,
New York, St Martin’s Press, 1972.
[20] Alberto Franceschini, Mara, Renato e io, Milano, Mondadori, 1988, pp.205-208.
[21] Maichaël Pollack, Une identité blessée, Paris, Métailié, 1993, p.36.
[22] Oreste Scalzone, La difesa impossibile, Roma, Agalev, 1987, p.117.
[23] Come dicono con humour Paolo Persichetti e Oreste Scalzone, frequentando
il mondo delle streghe Ginzburg "ha appreso l’arte magica che permette, solo
a lui, di partecipare ai segreti della "verità storica" (in Il nemico incofessabile,
Roma, Odradek, 1999, p.140). Il libro é stato tradotto, in una forma più lunga,
con il titolo La révolution et l’Etat, Dagorno (2000).
[24] Su queste questioni, vedi Isabelle Sommier, La violence politique et son
deuil. L’après 68 en France et en Italie, Rennes, Presses Universitaires de Rennes,
1998.
[25] Alberto Franceschini, op. cit.
Tradotto dal francese per Bellaciao.org,
da karl e rosa
23.04.2004
Collettivo Bellaciao